LE NOSTRE RECENSIONI CINEMATOGRAFICHEConsigli e dissuasioni psicologichesui film da vedere e da non vedereal cinema – 38 –

Gli Indios del Mato Grosso non hanno più nulla della antica civiltà che dovrebbero rappresentare. Si attaccano al retro di camion cisterna per trasportarsi da un luogo all’altro, violano proprietà private per procacciarsi cibo “facendo finta di cacciare”… , comparsata per i turisti…. una volta finita la recita cambio d’abiti, tutti sul camion e a casa!…

Assistono alla morte dei loro “fratelli” con fare allucinato e dimesso, rassegnato, quello di “un popolo in disfacimento, represso e confinato”. Seppelliscono i morti sotto l’occhio “dell’uomo bianco”, sorseggiano “aliti di vita avariata” dalla bottiglia di alcool che ha contribuito (e contribuisce…) a renderli stranieri in casa loro. Sono ridotti a vivere in riserva, in un recondito angolo della terra che un tempo fu “soltanto la loro”, selvaggia ed incontaminata, e che ancora non è stato fatto oggetto di sfruttamento o conquista da parte di avidi personaggi senza scrupoli… o a fare i servi presso bambine viziate e borghesi ed i loro genitori frivoli ed affaristi.

, riuscendo a trovare il passo per , riuscendo a descrivere anche “situazioni scontate” ma evitando il luogo comune ed il pietismo, grazie ad uno stile, se non proprio “alto”, che senza dubbio sa avvalersi delle fascinose risorse dello “spirito e della poesia”, cercando di far affiorare l’anima che “pulsa sottopelle”.

Abbandona così ogni idea di “trama” per far posto “al racconto di un popolo” ma soprattutto di , fascinosa e martoriata”, (ad esempio il fazendeiro Moreira), ed avendovi concepito ed allevato i propri figli, un possesso dunque che oramai va oltre le “carte di acquisto” di un terreno e che forse può indugiare nel rivendicar diritto e ragione, solo di fronte a chi di quella terra è talmente “figlio” da inghiottirla, masticarla, fino ad essere un tutt’uno con essa (scena davvero emblematica quest’ultima che forse “fagocita” (…!…) e scansa indietro tutte le altre….)

È bravo Bechis a descrivere della dolorosa separazione tra la realtà quotidiana, l’ identità e la tradizione di questo gruppo indigeno brasiliano (“Guarani-Kaiow”), della loro “resistenza”, a dare “volto e sostanza” agli sciamani che tentano, in maniera “incomprensibile”, di lottare contro una civiltà invasiva, assediante e corrotta, guidata dal lusso e dal profitto, “stantia” anch’essa ma a bordo piscina e con in mano un cocktail, ma anche nell’indicare i tanti possibili punti di convergenza e di contatto, ovvero la gamma delle possibilità “di futuro” che passa per l’incontro tra Osvaldo e Maria o per figure non belligeranti come “Claudio Santamaria/Roberto”, lo spaventapasseri…. e poi lavoro (non sfruttamento….lavoro!!…), scambio, dialogo…

Nadhio prova a “ritrovare” ed a far risorgere il suo popolo rantolante, accampa la sua “neo-tribu’” tra il recinto di una proprietà privata ed una strada densa di macchine che sfrecciano di continuo ed “inquinano” più per il rumore che per lo smog, soprattutto richiamano “prepotentemente” il “dove e come” di “Questi luoghi” e di “Questa realtà.
e circonda “l’avamposto di sorveglianza/roulotte” , e lo stesso si potrebbe dire per i dolorosi urli da uccello sguaiato che Osvaldo butta in faccia a quelli che stanno “dall’esterno” accelerando lo sterminio della sua razza e della propria identità, e che anche chi a questo sfogo assiste e da quella stirpe discende, fatica a riconoscere e comprendere…

“La terra degli uomini rossi” è un film dal valore ma anche dal “procedere” decisamente simbolico, dove una scarpa da ginnastica rappresenta la tenaglia assassina della multinazionale e lo sradicamento dalle origini, dove ad ogni sepoltura si vuole abbandonare con rapidità oltre alla sofferenza anche “gli oggetti, il legame ed il ricordo” per poter fuggire verso altri “incerti ma forse meno disperanti orizzonti”.

Tra utopia, speranza e misticismo l’ultima immagine è quella della foresta che lascia il campo al marrone arato delle coltivazioni con un albero solitario nel mezzo, e se sia l’inizio (…”il ritorno”…) o la fine della storia non sta a noi deciderlo… piuttosto “attendere, osservare….eventualmente influire….”.

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