Quattro “porzioni di mondo” (due contigue…) nelle quali si sviluppano quattro “segmenti di vita” con un denominatore comune che le mette in relazione pur se con differenti “distanze ed implicazioni”.
Con la oramai “navigata” coppia “Inarritu/Arriaga” (regista e sceneggiatore) esplora con lentezza e lucidità luoghi e situazioni, attraverso silenzi, gesti, sguardi e contrasti, cercando di “rendere” culture diverse, tra i protagonisti parte in causa degli avvenimenti con nettezza pur se “vicini” e residenti sullo stesso terreno.
C’è molto di una sceneggiatura forte e forse anche troppo “impositiva sulla direzione”, che usa il grimaldello della sfasatura temporale in fase di costruzione della narrazione per rendere più “penetrante” il racconto… arma intrigante questa ma pericolosamente a “doppio taglio” se raggiunge le “soglie della ridondanza”…..
La composizione a mosaico allude decisa ad una idea “globale” di mondo e sottolinea con “sguardo universale” la “contemporaneità ed il legame” degli avvenimenti pur con la loro “frammentazione e distacco” .
Inarritu e gli attori (bravi Pitt e Blanchett, ottima Koji Yakusho) ci mettono però molto del loro, specie in alcune sequenze particolarmente ispirate (il pianto della adolescente sordomuta, il conflitto a fuoco con protagonisti Hamed e la sua famiglia) e riescono a “segnare” in profondità, con stile e bravura, alcune “pieghe” psicologico-emozionali, lasciando respirare il film rispetto ad uno “script fitto e martellante” come un “meccanismo ad orologeria”.
Il Messico è scoppiettante nei balli e la musica di un matrimonio e delle sue strade, il deserto arido e insidioso si introduce ed accompagna grazie alle note di un sitar “allucinogeno”…La frontiera Americana un inizio di incubo lento, minuzioso e “provocatorio”… ipnotica la discoteca sia al ritmo di “musica e droga” che con il “silenzio lampeggiante delle luci bianche”….
Flash su folla e giornalisti, sulle chiacchiere dei politici, sulle maniere poco ortodosse delle istituzioni…emergono la gentilezza e la natura garbata di luoghi e persone apparentemente ostili e le insidiose solitudini ed egoismi del contrapposto mondo “cosiddetto” civilizzato.
A volerne pensare e parlare male si potrebbe dire che , con il suo , ma un pochino “preciso, freddo ed accademico”, mira si a tratteggiare “psicologie, culture ed umanità”, ma agendo poi troppo ad ampio raggio rimane “quasi consequenzialmente” in superficie, creando forse anche rimane nitido, vero e di uno scacchiere infinito, che il regista esplora con il suo sguardo da “dio muto dietro la macchina da presa” e delle quali i grattacieli glaciali e spettrali di Tokio si propongono a “fotografia-sigillo” conclusiva.