VIAGGIARE PER CRESCEREVACANZE: I "CONSIGLI" DELL’ANTROPOLOGAMARIANELLA SCLAVI

Nonno Mario, che di cognome faceva Sambo ma che, per parte di madre, discendeva dai Bembo, dogi in Venezia, a tredici anni fu spedito a Londra a imparare a fare il mercante. S’era intorno alla fine del 1800 e il giovane, quasi ancora un bambino, già frequentava nel Regno Unito il gotha del commercio internazionale. E insieme alle lingue straniere imparava a viaggiare.

Il padre, Umberto, nato a Rimini da una famiglia di generali, nel 1936 si sposò in Africa (la prima coppia italiana a celebrare le nozze in Etiopia), dove faceva l’attendente al comandante delle truppe indigene.

Scriveva, viaggiava, raccontava le sue straordinarie avventure nella savana, dove s’era anche perduto durante una battuta di caccia e aveva dovuto per giorni ingegnarsi per sopravvivere. Quando lasciò l’esercito si trasferì in Brasile con la famiglia, ad amministrare le terre di un nobiluomo. E divenne poi imprenditore edile.

«Quanto a mia madre ha sempre condiviso la vita errabonda, e brillante, di mio padre, un uomo curioso, gran viveur, amante della natura e dell’avventura. Ma non ho mai capito quanto amasse davvero tutto ciò».

Anche lei, Marianella Sclavi, famosa antropologa, a sedici anni fu spedita negli Stati Uniti: «Un anno di liceo nel Minnesota, in una famiglia che non conoscevo, in un sistema scolastico totalmente diverso da quello italiano. Ero terrorizzata, ma ne uscii con un senso di autonomia e una sicurezza che altrimenti non avrei mai conquistato».

Era il 1960 e fu tra le prime a partecipare al programma di scambi studenteschi di Intercultura, istituzione internazionale di cui, proprio il prossimo settembre, a Torino, saranno festeggiati i cinquant’anni di attività.

Da allora Marianella non s’è più fermata. E della passione per ogni forma di "viaggio", dell’esplorazione di "mondi possibili" ha fatto una professione. E anche un’arte.

«Il grande viaggio non consiste nell’andare a cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi», scriveva Voltaire, e la Sclavi, autrice del saggio L’arte di ascoltare e mondi possibili, ha da sempre fatto suo questo concetto, dimostrando due cose: innanzitutto come l’uscire dalle "cornici" di cui siamo parte (come recita il sottotitolo del suo bel libro), cioè dal proprio mondo, sia l’unico modo per incontrare veramente l’altro, gli altri. Per fare del viaggio-vacanza un’esperienza di conoscenza, anche di sé.

E poi che in fondo, per viaggiare sul serio, cioè per esplorare oltre il già noto, non occorre andare molto lontano. «Certo», dice, «la voglia di partire, la curiosità di conoscere e condividere altre culture, altri sistemi di valori, altri modi di vita, che anima chi si mette in cammino è già un bell’indizio. Ma non è detto che chi prende più aerei per attraversare gli oceani sia sempre colui che viaggia davvero».

È la capacità di ascoltare e osservare che fa il vero esploratore del mondo. E questa capacità è un’arte che – come dice la Sclavi – non è affatto spontanea: va costruita, va appresa. Con l’esperienza e con l’allenamento. A quest’arte lei, docente di Antropologia culturale ed etnografia urbana al Politecnico di Milano, ma anche formatrice, in Italia e all’estero, di peace keeping e gestione dei conflitti, ha dedicato una vita.

E le sue sette regole dell’arte di ascoltare sono diventate il "decalogo della comunicazione". Eccole.

«Applicata al viaggio questa prima regola può significare flessibilità nel percorso. Non organizzare mai tutto nel dettaglio, ma lasciare aperte possibilità di cambiamenti di programma perché siano gli eventi a determinare la rotta».

«Ogni cosa porta sempre a qualcosa d’altro, in maniera imprevista. Specialmente gli incontri che fai. E del viaggio gli incontri sono la fonte vera di conoscenza. Oltre ogni preconcetto. Ricordo anni fa, a Belgrado, stavo tornando da Sarajevo e avevo a disposizione otto ore di attesa del volo. Presi un autobus e decisi di visitare la città, che non conoscevo. Domandai a una graziosa ragazza seduta accanto a me che cosa valesse la pena di vedere. Finì che mi accompagnò e mi rivelò, strada facendo, tutto il suo strazio, lei originaria di Mostar, nel vederla divisa, percorsa da ostilità».

«Quando, anche durante un viaggio, non riesci a capire qualcosa o qualcuno, devi domandarti quale mondo occorre ipotizzare perché ciò che non capisci, o che non accetti, possa essere vero, o giusto. Assumendo quello che si chiama l’atteggiamento del giudice saggio: cioè di colui per il quale, dal proprio punto di vista, tutti hanno ragione. Non basta l’empatia (la facoltà intuitiva di mettersi al posto di un altro, percependone gli stati d’animo ndr.), è l’uscire da sé stessi che aiuta a comprendere».

«Il viaggio come espansione della conoscenza di sé: curiosità, ansia, stupore, paura, incertezza, tutte emozioni che accompagnano sempre il viaggiatore. Osserva, ma osservati anche, perché di te stesso potresti scoprire qualcosa di nuovo».

«Dal cibo alle abitudini di vita, a un atteggiamento nei nostri confronti. Quando qualcosa irrita è il segnale che siamo già oltre il già noto. Che c’è da capire».

«Anche fra compagni di viaggio può accadere che nascano diverbi. Ai miei allievi io dico sempre: se in una riunione chi parla dopo di voi dice esattamente il contrario di ciò che pensate rallegratevi, perché vi offre l’occasione di ampliare il vostro orizzonte».

«Nei rapporti che cosa c’è di più accogliente dell’umorismo?. Di più indulgente e al tempo stesso sincero dell’ironia? Di più sano dell’autoironia?».

Luciana SaibeneFAMIGLIA CRISTIANA n. 30 del 24/07/2005

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