DON LUIGI DI LIEGROUn uomo che si sporcava le mani

Don Luigi Di Liegro morì il 12 ottobre del 1997, nel giorno in cui, a Trento, quattro ragazzi uccisero un barbone. Alcuni commentatori si stupirono dell’indifferenza e del compiacimento degli assassini, definiti «senza causa». Ma come devono reagire degli uomini che hanno appena massacrato a sprangate un altro uomo, finendolo col fuoco? Una parvenza di pentimento avrebbe forse alleviato l’orrore del gesto? Uno dei quattro, appena catturato, come in un videoclip, tirò fuori la lingua davanti alle telecamere. Il carcere probabilmente non servirà loro a migliorare, anzi. Forse, ne usciranno più indifferenti di prima. Don Luigi è morto a pochi giorni dal suo sessantanovesimo compleanno, proprio nel giorno in cui un barbone è stato trucidato. A questi estremi, che spesso si toccano e convivono, ai tossicodipendenti, ai malati di aids, ai migranti, alle persone senza fissa dimora, ai marginali, Don Luigi ha dedicato tutta la vita.

L’avevo conosciuto alla fine del’96, già provato da un ictus cerebrale. Mi aveva chiesto di lavorare sul suo archivio personale perché voleva tirarne fuori una pubblicazione sull’attività della Caritas a Roma da presentare, provocatoriamente, alla vigilia delle elezioni amministrative. Lui che aveva appoggiato la prima elezione a sindaco di Francesco Rutelli, creando qualche scompenso nella gerarchia ecclesiale prima del Grande Giubileo, e che era poi diventato molto critico rispetto all’attività «sociale» della giunta capitolina.

Dal suo archivio emergeva chiaramente il difficile rapporto con quelle gerarchie, con il cardinal Poletti e la città di Roma. Una Roma che lui amava profondamente e che sentiva imbarbarirsi ogni giorno. Sia chiaro: non era un tradizionalista, non pensava ad una città un tempo civile e oggi decaduta. Ne conosceva troppo bene i «mali» perché era un realista nel senso migliore del termine.

Nel 1974 fu tra i promotori di un convegno, ribattezzato appunto «i mali di Roma», il cui vero titolo era «La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma», destinato a cambiare le forme dell’associazionismo, e non solo di quello cattolico. In quel convegno, che seguiva di pochi anni l’inchiesta sulla fede religiosa tra i romani, emerse il profilo di una Roma dura, violenta, cinica.

I «mali» non erano solo morali, ma anche molto materiali come ad esempio la mancanza cronica di alloggi: le decine di migliaia di appartamenti sfitti (se ne stimano attualmente 150.000) a fronte di decine di migliaia di nuclei famigliari senza casa (circa 40.000), che vivevano (e vivono tuttora) nelle scuole occupate, nelle baraccopoli, in condizione di coabitazione.

Si può dire che fu da quel convegno che ebbe inizio l’avventura di Don Luigi nel mondo degli ultimi. La Caritas ancora non esisteva, almeno nelle forme in cui siamo abituati oggi a conoscerla: perché, anche se sembra che sia sempre esistita, la Caritas nasce solo alla fine degli anni `70.

Pragmatico nella sua solidarietà, nel 1985 realizza, a Villa Glori, nel cuore della Roma bene, i Parioli, un centro per malati affetti da Hiv. Forse non è chiara a tutti la portata del gesto. Parioli è il quartiere dei benpensanti e dei benestanti per antonomasia. Se infatti a Roma si vuole indicare una persona ricca, con atteggiamenti elitari, si dice che è un pariolino. Negli anni’70 Parioli fu un fulcro del movimento neofascista in doppio petto: Dio, Patria, Famiglia.

Ecco, in quel luogo, don Luigi ha realizzato un centro, il primo della città, per malati di Aids. Ci furono blocchi stradali, sorsero comitati dei cittadini, si raccolsero firme e petizioni. Medici e professionisti, copiosi nella zona, affermarono che c’era un pericolo di contagio per la popolazione intera. Luigi ricevette molte minacce (del resto, poche settimane prima di morire mi confessò di riceverne ancora, ora per gli zingari, ora per gli immigrati), ma non servirono a nulla e il centro si fece comunque.

Era un persona scomoda, che dava fastidio. Al suo funerale, molti rappresentanti delle istituzioni che in vita lo avevano avversato, e a volte anche insultato, lo hanno incensato, esaltandone addirittura la funzione di pungolo per l’amministrazione capitolina e per la chiesa. Ma don Luigi non era un pungolo, era un uomo dal pensiero libero, era un politico, nel senso completo del termine, pur essendo tormentato da questo ruolo. Sferzava la sinistra, poi l’Ulivo, la giunta rosso-verde, con critiche continue e pressanti. Ma non era etichettabile come uomo di sinistra e chiunque tenti di appropriarsi della sua memoria per fini strumentali compirebbe un grave errore intellettuale, un plagio morale e politico.

Io l’ho frequentato per un anno nella sua casa-studio di piazza Poli, lavorando sul suo archivio personale.Voleva scrivere un libro di memorie, un libro sull’altra Roma, quella degli esclusi. Viveva quasi in povertà, con lo stretto indispensabile. Nei ritagli dei ritagli di tempo, parlavamo di Internet, della necessità di entrare in rete. Cercare, sperimentare e poi ancora cercare, questo lo spingeva ad andare avanti. Diceva che per capire e intervenire sulla realtà bisognava sporcarsi le mani. Ma oltre ai tormenti dell’anima e della politica mi diceva di essere preoccupato dall’idea che la Caritas si trasformasse in un «ministero». Sentiva che si stava smarrendo la spinta propulsiva ed entusiasta delle origini.

Un giorno della sua ultima estate, il suo intimo amico Paolo mi raccontò che aveva incontrato Luigi alle tre di pomeriggio di una giornata infernale di fine luglio, di ritorno dal poliambulatorio della Caritas. Era andato in autobus perché non aveva trovato un taxi, ed era infuriato. I medici dell’ambulatorio avevano chiuso fuori dalla porta una donna africana incinta perché stavano in pausa pranzo. Lui non poteva comprendere; lui, un uomo sulla soglia dei settanta, gravemente malato e debilitato, reduce da un ictus, aveva preso un autobus all’ora di pranzo, con 40 gradi all’ombra, praticamente in apnea per il tasso di umidità superiore al 90%, per far riaprire l’ambulatorio e accogliere la signora.

Dopo la sua morte un amico comune, un giorno, mi raccontò un aneddoto. Due parenti prossimi di Luigi, che fino a quando era in vita non si erano frequentati tra loro, decisero di incontrarsi per scambiare alcuni effetti personali del congiunto. Poco prima di vedersi, uno dei due si era fermato in un bar per bere un cappuccino e, soprapensiero, aveva appoggiato su un tavolino le voluminose buste di plastica nelle quali erano contenuti gli effetti. Era quindi uscito dal bar dimenticando le buste, ma dopo poche centinaia di metri se n’era accorto e aveva fatto ritorno verso il bar, scoprendo che le buste erano scomparse. Il barista gli disse di aver visto una barbona allontanarsi con due grosse buste di plastica bianche tra le mani.

Forse quest’articolo dovrebbe finire così. Il fatto è che quando si parla di Luigi il rischio di scadere nella retorica compiaciuta è sempre molto alto. Come le proposte che emersero nei giorni immediatamente successivi alla sua morte. Ci si chiedeva come rendergli omaggio. Qualcuno pensò di cambiare il nome a piazza Poli, dove c’era il suo studio, e intitolarla a lui. La toponomastica mi ha sempre lasciato indifferente, i busti mi sembrano roba per piccioni e immagino come lo stesso Luigi la prenderebbe. Certo sarebbe triste se un giorno qualcuno dicesse: «piazza don Luigi Di Liegro? Chi era costui?». Dipenderà da molti di noi, che l’hanno conosciuto o no, portare avanti parte della sua opera, perché delle cose non abbiamo solo il nome.

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