Riflessioni di mezza estate sul senso delle azioni umanitarie in epoca di guerra nucleare Rassegna Stampa da Ulteriori approfondimenti su

I «genpatsu gypsies» sono i precari su cui si basa l’industria nucleare giapponese. Parla il reporter che li ha scoperti

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Erano genpatsu gypsies, gli «zingari del nucleare». Le quattro vittime dell’incidente di ieri non erano lavoratori dipendenti, ma «addetti stagionali», lavoratori in affitto, operai non specializzati cui le società che gestiscono le centrali nucleari in Giappone affidano il delicato compito della manutenzione, avvalendosi di agenzie per il lavoro occasionale. «Finalmente l’opinione pubblica giapponese si renderà conto dell’enorme pericolo che corriamo – spiega a il manifesto il fotografo giornalista Kenji Higuchi, che alcuni anni fa, spacciandosi per operaio in cerca di lavoro stagionale, realizzò un servizio sul delicato e spesso misterioso sistema della manutenzione – i nostri media parlano già dell’incidente più grave, sinora, nonostante i numerosi incidenti registrati, c’era stata solo una vittima, ufficiale, a Ibaraki, nel 1967. Ma non è così. Assieme al Cnic, il coordinamento per la controinformazione antinucleare, abbiamo calcolato che negli ultimi vent’anni le vittime tra gli addetti all’industria nucleare sono oltre 200…e chissa quanti ce ne sono sfuggiti…». Ma chi sono questi "zingari nucleari", che Higuchi è riuscito a fotografare spacciandosi per un operaio e di cui ha parlato nel suo saggio L’industria più pericolosa del mondo? «L’industria nucleare giapponese – risponde – è molto avanzata: la scelta del nostro governo, fin dagli anni `60, è stata netta e decisa, nonostante la fortissima, e direi più che giustificata opposizione popolare (oggi ricorre l’anniversario della bomba atomica su Nagasaki, n.d.r). L’obiettivo dichiarato è di raggiungere e superare, entro il 2020, il 50% del fabbisogno di energia elettrica. Ma il mercato del lavoro è cambiato, e nonostante si tratti di un settore particolarmente delicato, dove sono richieste particolari competenze e continui aggiornamenti, il numero dei dipendenti contrattualizzati cala continuamente. A Mihama, su poco più di 350 addetti, 222 sono lavoratori stagionali. Ma la tendenza è nazionale: su 70 mila addetti, poco più del 10% ha un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono, appunto, «zingari». Gente che viene assunta per pochi mesi, e che potrebbe lavorare come carpentiere in un cantiere edile o ad una qualsiasi catena di montaggio della Toyota… Si tratta di gente ignorante, cui non viene impartito il necessario addestramento e che spesso viene retribuita a cottimo. è facile immaginare l’impatto che questo sistema ha sulla sicurezza, e sulla salute. Ricordate Tokaimura, il grave incidente del 1999? Ufficialmente vi furono solo due vittime, ma dopo due anni altri cinque addetti morirono per le radiazioni riportate: per fare prima e rispettare la «norma» assegnata, si erano tolti guanti e occhiali….».

E poi c’è il problema della trasparenza, dei dati truccati. La Tepco, una delle due maggiori società del settore, è stata condannata l’anno scorso per aver manomesso i dosimetri. «Infatti, e questo – continua Higuchi – ha ulteriormente diminuito la fiducia dell’opinione pubblica. Un po’ dappertutto, nelle zonee dove sorgono le centrali cucleari, si sono svolti o si svolgeranno referendum popolari. Il risultato è sempre uno schiacciante no, ma in Giappone i referendum sono solo consultivi e le amministrazioni locali non hanno ancora la forza di opporsi alle decisioni di Tokyo».

Recentemente, tuttavia, qualcosa sta cambiando. La moglie di uno «zingaro» di 29 anni, morto di leucemia, ha trascinato in tribunale l’azienda per cui lavorava ottenendo un indennizzo dalla Commissione nazionale per gli incidenti sul lavoro. «È un passo importante – spiega l’avvocato Yuichi Kaido, legale della famiglia Shiamanashi – durante il processo siamo risuciti a dimostare due cose importanti. Primo, che le aziende mentono e addirittura tendono a manipolare i dati dei dosimetri, secondo che tutta una serie di malattie generiche, nel caso insorgano su individui sani che stanno o hanno lavorato in una centrale nucleare, diventano malattie professionali e come tali vanno trattate».

L’esecutivo Ue per l’aumento della produzione di energia nucleare
L’Italia si accoda Il governo rilancia: «Il referendum fu un errore strategico». La Cisl è con lui. Ma anche in Francia la scienza frena

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PARIGI

L’Unione europea sta lavorando il terreno per rilanciare il nucleare? La scusa è già stata trovata: per rispettare il Protocollo di Kyoto sulla riduzione di gas ad effetto serra i Ventincinque non potranno fare a meno dell’aumento della parte del nucleare nella produzione complessiva di energia. Loyola de Palacio, vice-presidente della commissione europea con l’incarico dei trasporti e dell’energia, ha messo chiaramente in relazione questi due termini nelle giornate dedicate all’energia nucleare che si sono svolte prima dell’estate all’Assemblea nazionale a Parigi. «L’Europa è dipendente per il 50 per cento del proprio consumo energetico e lo sarà sempre di più, nel 2030 questa dipendenza sarà del 70 per cento». Per questo, secondo Loyola de Palacio, bisogna almeno mantenere nel futuro la percentuale rappresentata oggi dalla fonte nucleare nell’approvvigionamento di energia in Europa, cioè il 15 per cento. «Se non si fa nulla – sostiene un recente Libro verde dedicato al Futuro dell’energia nucleare nell’Unione europea – il panorama energetico complessivo nel 2030 continuerà ad essere dominato da carburanti fossili: 38 per cento petrolio, 29 per cento gas, 19 per cento carburanti solidi, 8 per cento rinnovabili e soltanto 6 per cento per il nucleare». In Italia, paese che ha rifiutato il nucleare per referendum, il governo sta dando ampia eco alle discussioni in corso in ambito comunitario. Come per lanciare un ballon d’essai, ieri mattina alla radio, il vice-ministro dell’economia Mario Baldassarri ha affermato che «da un punto di vista strategico di lungo periodo il no al nucleare è stato un gravissimo errore con disinformazione dell’opinione pubblica sugli eventuali rischi». Al che, il leader della Cisl Savino Pezzotta ha rilanciato, affermando che gli italiani avevano approvato un refendum «che ha detto che volevamo uscire dal referendum» che aveva bandito il nucleare. Il vice-ministro per le attività produttive Adolfo Urso, è sulla stessa linea quando afferma che l’Italia è «il paese al mondo più dipendente dall’estero per quanto riguarda la produzione e il consumo energetico» e che quindi, bisogna «ripensare, come stiamo facendo, all’ipotesi del nucleare».

Mettendo tra parentesi il nucleare nei nuovi membri dell’Unione dell’Europa centrale, dove esistono gravi problemi di sicurezza e dove sono stati stanziati fondi per chiudere centrali pericolose (come quella di Ignalina, in Lituania, paese-record con una dipendenza dal nucleare del 79,7 per cento), otto dei vecchi Quindici hanno impianti nucleari, ma cinque di essi (Svezia, Spagna, Olanda, Germania e Belgio) hanno adottato o promesso una moratoria. L’Italia è la sola ad aver rinunciato al nucleare con un referendum nell’87. Invece, Francia, Finlandia e Gran Bretagna non hanno mai manifestato dubbi. Il 77,6 per cento dell’energia francese è nucleare. Il dibattito è molto inteso sul rinnovamento delle centrali (la cui durata «sicura», per migliorare il bilancio della società, è stata allungata burocraticamente di 10 anni pochi mesi prima dell’apertura del difficile dibattito sulla privatizzazione di Edf, l’Enel francese, che gestisce le centrali). La destra spinge per accelerare il rinnovamento e la sinistra è divisa. Quattro militanti si sono esauriti quest’estate in uno sciopero della fame contro il reattore superpotente Epr (European Pressuring Water Reactor): un prototipo sarà costruito in Francia, ma la decisione finale sul dove sarà presa solo in autunno. Nella regione candidata Rodano-Alpi, passata a sinistra la scorsa primavera, i Verdi e una parte del Ps sono ai ferri corti con l’altra parte del Ps, il Pcf e i sindacati che chiedono che non venga rispettata la promessa elettorale di levare la candidatura per l’Epr, che promette 10mila posti di lavoro nei cinque anni di costruzione. La Finlandia ha già firmato con Edf un contratto per la costruzione di un reattore modernissimo.

«La lobby nucleare è ripartita», spiega il fisico nucleare di Parigi VII, Georges Waysand, «tutti sono d’accordo sul fatto che si debba ridurre il Co2, ma non è molto coerente rilanciare con questa scusa il nucleare». Difatti, il gas ad effetto serra è prodotto in massima parte dai trasporti, e paradossalmente il «piano clima» appena varato dal governo francese evita accuratamente di affrontare la questione dei trasporti (dopo aver fatto balenare un malus» sulle auto ad alto tasso di inquinamento, come le Suv).

In Bulgaria, Cechia e in Slovenia, a 120 chilometri di Trieste, reattori identici a quello di Chernobyl
Una eredità pesante Dopo l’allargamento Bruxelles vuole smantellare gli impianti dei paesi dell’Est. Ma a rischio è anche l’inglese Sellafield. Il problema scorie

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Se recentemente l’incubo nucleare è venuto spesso da Est, la nuova Europa a 25 non ha di che rallegrarsi. Su 434 reattori nucleari presenti nel mondo, l’Unione ne ospita attualmente circa 160 (distribuiti su un totale di 60 siti), di cui 58 in Francia. Se Germania e Belgio tra il 2000 e il 2002 hanno deciso di chiudere gradualmente i loro impianti, con l’ulteriore allargamento nel 2007 la UE ne erediterà altri 7. Bruxelles punta a disattivare al più presto tutte le centrali dell’Est di tecnologia sovietica e quelle dichiarate «non modernizzabili» (con reattori di tipo RBMK a grafite raffreddata o VVER ad acqua pressurizzata), il cui principale difetto di progettazione è l’assenza di un sistema di protezione secondaria dell’involucro nucleare. In breve: non sono attrezzate per far fronte all’evacuazione di materiale radioattivo, né al rischio di impatti esterni.

I nomi che fanno tremare sono Kozlodui in Bulgaria, Temelin in Repubblica Ceca, Bohunice in Slovacchia, la slovena Krsko a 120 chilometri da Trieste e Ignalina in Lituania, che ha due reattori identici a quelli di Chernobyl. Tutte andate incontro a «piccoli incidenti» periodici. A preoccupare di più, però, è la Federazione Russa: Mosca ha violato gli accordi sulla valutazione della sicurezza atomica rifiutandosi di chiudere l’impianto di Kursk 1, e possiede numerosi reattori ancora in funzione nonostante la durata prevista fosse limitata a trent’anni.

Fino a oggi l’Unione europea ha sborsato più di 900 milioni di euro per monitorare le centrali a rischio, e concederà varie centinaia di milioni agli Stati candidati per chiudere le centrali obsolete, assicurare controlli efficienti, provvedere alle scorie. Nessun paese al mondo – ad eccezione degli Usa – ha ancora individuato un sito geologico per lo smaltimento finale dei residui nucleari. Finlandia e la Svezia prevedono di sotterrarle a grande profondità; la Francia ha rimandato la decisione al 2006. Quanto ai paesi dell’Est, sono abituati a rispedire il loro combustibile in Russia.

Altrettanto poco affidabili, comunque, si devono considerare alcune centrali dell’Europa occidentale. Come Sellafield, in Gran Bretagna, divenuta celebre in Italia dopo che il Governo ha proposto di inviare lì le scorie nostrane: costruita secondo tecnologia molto simile a quella di Ignalina e Chernobyl, possiede un «vecchio» reattore ad acqua pressurizzata (PWR) privo di sistemi di protezione. Nel corso degli anni qui si sono verificati numerosi incidenti, e nella zona circostante sono stati rilevati livelli di incidenza di cancro nei bambini superiori a qualsiasi media europea. Le stesse centrali francesi, considerate all’avanguardia in Europa, hanno visto negli anni Novanta e oltre parecchi incidenti (come a Bugey-3). E quelle svizzere, che vendono energia all’Italia, nel 2001 hanno registrato 16 incidenti «minori» (contenuti all’interno del reattore).

All’Europa, però, manca ancora una legislazione adeguata e delle norme univoche in materia di energia e di sicurezza nucleare. L’ultimo trattato in materia, Euratom – che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica -, risale al 1957, e non interviene in alcun modo sulla sicurezza nucleare (ma può finanziare, come fa, la costruzione di nuove centrali). Concretamente, per arrivare a un sistema di norme comuni di sicurezza, Bruxelles dovrà tener conto dei risultati dei lavori delle principali autorithies internazionali in materia: l’Aiea, il Nuclear Regulator’s Working Group e la Western European Nuclear Regulators Association (riunisce le agenzie di controllo nucleare d’Europa).

In mancanza di parametri precisi sul tipo di contenimento necessario, non si ha neppure un punto di partenza comune per valutare il rischio nucleare.

Quattro morti nella centrale di Mihama: il più grave incidente nucleare in Giappone. Nel giorno di Nagasaki

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Èil più grave incidente mai avvenuto in una centrale nucleare giapponese, in termini di vittime: quattro lavoratori sono morti, altri sette sono stati ustionati in modo grave ieri pomeriggio, per un’esplosione nel reattore numero 3 della centrale nucleare di Mihama, nella prefettura di Fukui, 320 chilometri a ovest di Tokyo. L’esplosione è avvenuta intorno alle 3,30 del pomeriggio, ora locale, nella sala adiacente alle turbine, azionate da vapore sotto pressione. Un gruppo di lavoratori era appena entrato per alcune manovre di manutenzione: sono stati investiti da un getto di vapore a 142 gradi Celsius. La società proprietaria della centrale e l’ente giapponese per la sicurezza nucleare si sono precipitati a dire che non c’è stata fuga di radioattività.

Un portavoce della Kansai Electric Power Co (Kepco), la società proprietaria dell’impianto, ha precisato che l’esplosione ha provocato lo spegnimento automatizzato del nocciolo del reattore, un impianto ad acqua pressurizzata da 826 megawatt costruito nel 1976. «Il vapore che è sfuggito non contiene materiale radioattivo», ha detto un responsabile della Nuclear and Industrial Safety Agency: «Le notizie che abbiamo sono che non c’è fuga di radioattività nell’ambiente». Non può esserci fuga di radioattività, sostengono all’ente per la sicurezza, perché quel vapore non entra in contatto con l’acqua pressurizzata del reattore. A sottolineare che non c’è alcun pericolo, le autorità non hanno evacuato e neppure messo in allarme la città di Mihama, circa 11mila abitanti, affacciata sul Mar del Giappone.

Le immagini della televisione però, con pompieri e addetti in tute d’emergenza sul luogo dell’incidente, non saranno rassicuranti per i giapponesi. Né basteranno a rassicurare le scuse pronunciate ieri sera da Hiroshi Matsumura, manager generale della Kansai Electric. E neppure le parole del primo ministro Junichiro Koizumi, che per ironia della sorte ha commentato l’ultimo incidente nucleare da Nagasaki, dove partecipava alla commemorazione delle vittime della seconda bomba atomica esplosa sul pianeta, nel 1945, a pochi giorni di distanza da quella di Hiroshima. «Il governo deve fare del suo meglio per garantire la sicurezza», ha detto.

Le circostanze dell’esplosione nella centrale di Mihama restano da chiarire, sia l’azienda che l’ente statale per la sicurezza hanno annunciato inchieste – Kansai dice di non poter prevedere quanto a lungo il reattore resterà fermo. Con 11 reattori in tre centrali (Mihama, Ohi e Takahama), Kansai è la seconda azienda nucleare giapponese. Quella di Mihama è una centrale vecchia, funziona dagli anni `70. Tutti gli 11 addetti coinvolti nell’incidente sono lavoratori a contratto, dipendenti della ditta Kiuchi Keisoku di Osaka – città dove ha sede anche la Kansai Electric. Quello di ieri è il primo in Giappone in cui un incidente attiva il meccanismo automatico di spegnimento del nocciolo del reattore. è anche il primo incidente letale in una centrale giapponese, anche se i 4 malcapitati morti ieri non sono le prime vittime dell’industria nucleare: nel settembre del 1999 nella centrale di Tokaimura, a nord-est di Tokyo, una reazione a catena incontrollata provocò una fuga di radioattività uccise due addetti (morirono alcuni giorni dopo), 600 persone furono esposte alle radiazioni, migliaia di abitanti della zona evacuati e 320mila persone costrette a restare chiuse in casa per oltre un giorno.

Il Giappone è la terza industria nucleare civile al mondo dopo gli Stati uniti e la Francia, ha 52 reattori e ricava dall’energia atomica circa un terzo della sua elettricità. L’energia atomica è stata presentata ai giapponesi come necessaria a non dipendere dal costoso petrolio mediorientale (per affrancarsi dal Medio oriente Tokyo sta lavorando da un paio d’anni a ambiziosi piani di estrazione di petrolio e gas nella Russia asiatica).

E però anche in Giappone è cresciuta, con il tempo (e gli incidenti) un’opposizione al nucleare: ne è un segno la serie di referendum cittadini che hanno votato contro la costruzione di nuove centrali: referendum solo consultivi, ma il messaggio è chiaro. Il consenso nucleare è stato scosso dagli incidenti e forse ancor più dalla propensione dell’industria e delle autorità a nascondere i fatti. L’estate scorsa la Tokyo Electric Power Company (Tepco), maggiore società proprietaria di impianti nucleari in Giappone, aveva dovuto chiudere temporaneamente tutti i suoi 17 reattori dopo aver ammesso che per oltre dieci anni aveva falsificato i rapporti di sicurezza. Proprio ieri anche Tepco ha dovuto annunciare un incidente, sia pure «minore»: una fuga d’acqua ha imposto la chiusura di un reattore nella centrale di Fukushima-Daini.

In Giappone sono in funzione attualmente 52 centrali nucleari. Il governo ha in programma la costruzione di altri impianti in molte zone del Paese, anche se la popolazione nipponica ha votato contro in diversi referendum. le centrali nucleari già in funzione sono in grado di fornire il 31,2% del fabbisogno nazionale di energia elettrica. Ma non basta. «L’ideale – sostiene il ministero dell’economia, industria e commercio – è arrivare a coprire con il nucleare il 50% del fabbisogno nazionale». Numerosi del resto gli incidenti negli ultimi anni: la Tokyo electric power (Tepco), la società numero uno del paese, sue le centrali nella prefettura di Fukushima e di Shimane, era stata costretta poco più di un anno fa a chiudere temporaneamente tutte le sue 17 centrali, per la falsificazione sistematica della documentazione relativa alla sicurezza degli impianti per oltre 10 anni consecutivi.

: Il reattore della centrale nucleare di Hamaoka perde acqua nucleare. Si è rotto un tubo nell’impianto di raffreddamento. è allarme degli esperti per il tipo di guasto, il primo di questo tipo accaduto alle 52 centrali nucleari attive in Giappone.

: Un’operazione errata nell’impianto di trattamento delle scorie nucleari scatena una fissione incontrollata nella centrale di Tokaimura, bloccata solo dopo 20 ore. 18 tecnici si dividono in 9 coppie, per entrare nell’impianto contaminato e non restarci troppo tempo. Ne muoiono due, che si sacrificano per interrompere la fissione. Vengono ricoverate 600 persone perché esposte a radiazioni, 320mila invece sono temporaneamente evacuate. Secondo l’agenzia per la Scienza e la Tecnologia, si tratta del peggior incidente nucleare della storia giapponese, classificato al quarto livello in una scala di sette. Il massimo livello è quello raggiunto da Chernobyl.

: Ancora nella centrale di Tokaimura, va in fiamme l’impianto per il trattamento del combustibile nucleare. l’incendio dura 10 minuti, ma è seguito da una terribile esplosione. Solo dopo diversi giorni i responsabili ammettono la fuoriuscita di materiale radioattivo. Plutonio 236 e Cesio 137 arrivano fino alla parte orientale di Tokyo, spinti dal vento. Sono 37 i lavoratori dell’impianto esposti a radiazioni.

: Scoppiano i tubi dell’acqua di raffreddamento del reattore nella centrale nucleare di Mihama. Finiscono in mare 20 tonnellate d’acqua radioattiva.

ANALISI

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Gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi – il più grave quello di Mihama – avvenuti per tragica coincidenza nell’anniversario del bombardamento atomico di Nagasaki, riportano in primo piano la questione del nucleare. Sono in funzione nel mondo 441 reattori elettronucleari, che forniscono il 7% della produzione totale di energia primaria commerciale e il 17% di quella di energia elettrica. Essi sono distribuiti per l’80% in 17 paesi industrializzati dell’Ocse e per il restante 20% in altri 14 paesi. In generale, la costruzione di centrali elettronucleari si è notevolmente rallentata, soprattutto a causa dei costi economici, collegati ai crescenti problemi relativi alla sicurezza degli impianti e alla conservazione delle scorie radioattive: oltre 250mila tonnellate di metallo pesante, cui se ne aggiungono ogni anno 10mila, che resteranno altamente pericolose per secoli e millenni.

Vi è inoltre il problema che, anche se le centrali nucleari offrono il vantaggio di non emettere gas-serra, esse emettono piccole dosi di radioattività le quali, nel lungo periodo, possono arrecare danni agli esseri viventi. Molto maggiori sono le emissioni radioattive degli impianti di arricchimento e ritrattamento del combustibile nucleare. Frequenti sono, inoltre, le fuoriuscite accidentali di radioattività provocate da guasti e incidenti.

L’ulteriore problema, il più grave, deriva dal fatto che, non esistendo una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile, i paesi che lo producono possono servirsene per costruire armi nucleari. Oltre agli otto paesi che già posseggono armi nucleari (Stati uniti, Russia, Francia, Cina, Israele, Gran Bretagna, India, Pakistan), ve ne sono almeno altri trentasette che si ritiene siano in grado di costruirle. Tra questi, la Corea del Nord potrebbe aver già raggiunto tale capacità.

Nello stesso Giappone vi è una corrente politica favorevole alla costruzione di un arsenale nucleare nazionale, consono al suo status di seconda potenza economica mondiale. Avendo una sviluppata industria elettronucleare comprendente 53 reattori, esso ha accumulato oltre 38mila chilogrammi di plutonio 239, sufficienti a fabbricare circa 7mila testate nucleari. Anche se non si può prevedere in quali circostanze un governo giapponese potrebbe lanciare la sfida nucleare, uscendo dal Trattato di non-proliferazione ratificato nel 1976 e scontrandosi col forte movimento anti-nucleare esistente nel paese, tale possibilità è reale.

Altrettanto reale è la possibilità che altri paesi cerchino di costruire armi nucleari e prima o poi ci riescano. Non può infatti restare immutata per sempre la situazione in cui un piccolo gruppo di stati mantiene l’oligopolio delle armi nucleari. In questo «club nucleare» dominano gli Stati uniti che, scavalcando le Nazioni unite, si arrogano il diritto di stabilire quali paesi possano e quali non possano possedere armi nucleari.

Nello stesso giorno in cui 59 anni fa gli Usa sganciarono su Nagasaki una bomba al plutonio, la consigliera per la sicurezza nazionale, Condoleeza Rice, ha accusato l’Iran di aver ripreso la fabbricazione di centrifughe non per uso civile ma per ricavare il plutonio necessario a produrre in futuro armi nucleari. «Non possiamo permettere che l’Iran sviluppi armi nucleari», ha concluso con tono minaccioso.

Analoghi minacciosi avvertimenti sono stati lanciati dal governo israeliano che, a differenza di quello iraniano, non aderisce al Trattato di non-proliferazione e, non sottoposto ad alcuna verifica da parte della Iaea, è l’unico in Medio Oriente a possedere e a tenere puntate sugli altri paesi della regione dalle 200 alle 400 testate nucleari.

Particolarmente preoccupante è il fatto che il comando militare israeliano ha iniziato domenica scorsa a distribuire pillole allo iodio alla popolazione della zone vicine al centro nucleare di Dimona (dove si producono segretamente armi nucleari), «per proteggere i residenti dal fallout radioattivo provocato da un attacco missilistico al centro nucleare o in caso di incidente a un reattore» (letta su , 8 agosto). Tale decisione rientra evidentemente nella campagna per preparare i governi e l’opinione pubblica a un attacco «preventivo» israeliano contro gli impianti nucleari iraniani.

Un attacco che potrebbe provocare, anche per l’Europa, effetti più gravi della catastrofe di Cernobyl.

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