Quando tutto cambia, da ciò che è piccolo e tangibile a ciò che è grande e astratto – l’oggetto di studio e lo studioso, nonché i mondi loro immediatamente circostanti e quello più ampio che li circonda entrambi – non sembra esservi nessuna posizione dalla quale sia possibile scorgere esattamente cosa sia cambiato e come.
… Il tempo, questa specie di tempo, un po’ personale, un po’ professionale, in parte politico, in parte filosofico (qualunque cosa ciò possa significare), non scorre come un immenso fiume che raccoglie tutti i suoi affluenti e si dirige verso una qualche destinazione finale, un mare, una cateratta, ma come tanti corsi d’acqua, di varia grandezza, che nella loro corsa serpentina vengono talvolta a incrociarsi, a correre insieme per un tratto per poi tornare di nuovo a separarsi. E non si muove neppure secondo cicli e periodi, di diversa lunghezza, l’un l’altro sovrapposti come un’onda complessa che un analista di suoni armonici potrebbe scomporre nei suoi elementi. . Un ordine di un qualche tipo vi è, ma si tratta dell’ordine di una burrasca o di una piazza di mercato: nulla di misurabile.
. Non c’è nessuna storia generale da raccontare, e neppure quadri sinottici da fare. E se anche vi fossero, nessuno, e men che mai uno che se ne andasse vagando nel bel mezzo degli eventi come Fabrizio a Waterloo, sarebbe in una posizione tale da consentirgli di costruirli, né nel momento degli accadimenti né dopo. Ciò che invece possiamo costruire, se osserviamo accuratamente e se sopravviviamo, sono resoconti sullo stato di connessione delle cose che sembrano accadute: quadri composti di frammenti pazientemente cuciti uno dietro l’altro, dopo i fatti.
Questa semplice osservazione su ciò che realmente succede quando qualcuno cerca un «trovare un senso» nelle conoscenze che gli è riuscito di ricavare dagli svariati materiali in cui si è imbattuto nel suo frugare nelle accidentali vicende del mondo comune solleva subito una ridda di domande inquiete. Che ne è stato dell’oggettività? E poi, chi ci assicura che abbiamo fatto le cose proprio come si deve? E la scienza, dove è andata a finire? E tuttavia può ben darsi che ogni conoscenza (anzi, la coscienza in quanto tale, se i modelli del cervello sono validi) insegua le tracce della vita proprio in questo modo. . I resoconti vengono confezionati a partire dalle nozioni disponibili, dall’attrezzatura culturale che si ha portata di mano. Ma come qualsiasi altra attrezzatura, anche questa entra a far parte del compito; il valore è aggiunto, non estratto. Se si vuole arrivare all’oggettività, alla correttezza e alla scienza non si deve pretendere che esse siano indipendenti dal lavoro concreto che le produce o le distrugge.
Pertanto, per redigere i miei resoconti del cambiamento nelle mie città, nella mia professione, nel mio mondo e in me stesso, non occorrono racconti articolati sistematicamente, misurazioni, ricordi o una progressione strutturata, e sicuramente non c’è bisogno di grafici; anche se questi hanno una loro utilità (come i modelli e le teorizzazioni) nella delimitazione dei contesti e nella definizione dei temi. . Il mito, è stato detto, credo da Northrop Frye, descrive non ciò che un tempo è accaduto ma ciò che accade. Per la scienza, e comunque per la scienza sociale, vale pressoché la stessa cosa, salvo che le sue descrizioni pretendono di avere un fondamento più saldo e di basarsi su un pensiero più solido, e talvolta aspirano a una certa imparzialità.
Non è più possibile sfuggire alle immediatezze situazionali della conoscenza etnografica, i pensieri e le occasioni in cui state cercando di intromettervi, più di quanto non sia possibile sfuggire ai vincoli temporali, e il pretendere di farlo è forse ancor più nocivo.
Ebbene, questi sono i fatti, o comunque io dico che i fatti sono questi. I dubbi che sorgono, in me stesso o nel mio pubblico, hanno a che fare solo molto parzialmente con questioni relative alla base empirica su cui poggiano questi resoconti o altri resoconti simili a questi. I canoni della «prova» antropologica sono quelli che sono (imitazioni di discipline più severe come la meccanica o la fisiologia): ecco, in realtà, come tali dubbi sono sovente formulati e, nella misura in cui lo sono, vengono ancor più spesso messi a tacere. Le note aiutano, i testi riportati parola per parola aiutano ancora di più, il dettaglio fa una certa impressione, e i numeri di solito vi fanno conseguire la vittoria. E tuttavia, perlomeno in antropologia, essi rimangono cionondimeno meri ausilii: necessari, naturalmente, ma insufficienti, nient’altro essenziali. Il problema – la correttezza, l’attendibilità, l’oggettività, la verità – sta da qualche altra parte, molto meno accessibile alle destrezze del metodo.
In parte il problema sta in ciò che si pensa significhino queste grandiose idealità. () Ma soprattutto esso sta nei meccanismi di funzionamento del discorso che essi intendono migliorare. In fin dei conti com’è che, a partire da casuali esperienze e da eventi di cui si è stati testimoni solo a metà, si finisce, come talvolta succede, per costruire, scrivere e raccontare fatti? Principalmente, sembra, per mezzo di figure sommarie in qualche modo assemblate lungo la via: immagini elaborate di come le cose siano legate le une alle altre. La decisione, ché di decisione si tratta, di presentare Pare come un’arena politica e di raffigurare Sefrou come un paesaggio morale giace al di fuori del mondo che la mia descrizione descrive. (differenza polarizzata, brutalità stilizzata, ossessiva operosità; forma plasmata, sciami migratori, confusione sociale) .
La questione è quindi la seguente: da dove proviene il modo in cui noi ne parliamo? E la risposta preferita suona di nuovo così: esso proviene da ciò che è là fuori di fronte a noi, con gli occhi bene spalancati, con i nostri interessi messi da parte, e armati naturalmente dei nostri metodi. Ogni cosa è quello che è e non un’altra cosa; gli agoni sono agoni, e i paesaggi paesaggi. Le concezioni – credenze, idee, versioni, giudizi – possono essere inventate, prese in prestito da altri, derivate da teorie; esse possono addirittura venire nei nostri sogni o possono essere tratte da poesie. Ma è il modo in cui stanno le cose che ne autorizza l’uso. Il compito essenziale è insomma di dire le cose così come stanno.
Bene, suppongo che sia così; e certamente io non voglio cercare di difendere la tesi contraria. Comunque, è dubbio che questo modo di guardare alle cose (idee messe insieme nella testa, cose sussistenti nel mondo, e le seconde che ridimensionano le prime) sia di grande aiuto per capire come la conoscenza sia ottenuta nel lavoro antropologico. Chiedere se Pare sia realmente una successione di contese o se Sefrou sia realmente una forma in via di dissolvimento è un po’ come chiedersi se il sole sia realmente una esplosione o se il cervello sia realmente un computer. Il problema è: che cosa dici nel dire ciò? Dove ti fa arrivare? E vi sono anche altre figurazioni – il sole è una fornace, Sefrou una gabbia di matti; Pare è una danza, il cervello un muscolo. E allora che cosa raccomanda la mia?
Ciò che le raccomanda, o non le raccomanda se esse sono mal costruite, sono le ulteriori figurazioni che ne scaturiscono: la loro capacità di stimolare estesi resoconti che, intersecandosi con altri resoconti su altre materie, estendano le loro implicazioni e aumentino la loro efficacia. Noi possiamo sempre contare sull’accadere di altri avvenimenti, su un’altra esperienza imprevista, su un altro evento di cui abbiamo testimonianza diretta solo in parte. Ma che noi avremo qualcosa di utile da dire su ciò quando esso capiterà, su questo noi non possiamo contare. In altri termini, noi non corriamo il rischio di esaurire la realtà, ma corriamo continuamente il rischio di esaurire i segni, o almeno il rischio di vedere scomparire per noi i vecchi segni. La natura della coscienza in generale, il suo venire dopo-i-fatti, , il suo in-seguire le tracce della vita – prima l’accadimento, poi la formulazione – appare in antropologia come un continuo sforzo di costruire sistemi discorsivi che, più o meno, possono andare di pari passo con ciò che, forse, sta succedendo.
Gli antropologi che pretendono, come la maggior parte di noi continua a pretendere, di raccontare le cose così come sono realmente non fanno altro che costruire sistemi di discorso, strutture di rappresentazione in cui ciò che forse sta succedendo possa essere formulato come asserti e argomenti rivestiti di evidenza. Ma qui è il punto critico. è proprio a tali sistemi, strutture, configurazioni di segni, modi di dire, e non alle parole della realtà, conosciute solo dai veggenti, che le obiezioni e i dubbi sono propriamente rivolti. Il mio racconto delle due città non intende semplicemente stabilire una differenza; esso intende piuttosto sottoporla a un uso interpretativo. .
Per un etnografo una cosa conduce a un’altra, questa a una terza, e questa a chissà quale altra. Oltre Pare e Sefrou, attorno a esse, dietro di esse, davanti a esse, al di sopra di esse c’è un enorme insieme di (come chiamarle?) pratiche, epistemi, formazioni sociali, realtà, a esse collegate e che devono trovare posto in qualsiasi progetto che cerchi di ricavare dal vagabondare in esse qualcosa di più che bizzarre informazioni. Per quanto sia difficile iniziare questa sorta di discorso, bloccarlo è ancora più difficile.
Vi tocca lavorare e , mettendo insieme storie millenarie e massacri di tre settimane, conflitti internazionali ed ecologie municipali.
Brani tratti da: