Due stupri collettivi subìti all’età di quattordici anni, un silenzio imposto dal duro codice della strada, l’umiliazione di essere additata, persino dalla propria famiglia, come colpevole, di essersela – in qualche misura – "meritata". Via dall’inferno (Fazi Editore, pp. 208, euro 13,50) è il titolo del libro autobiografico di Samira Bellil, cresciuta nella periferia di Parigi, oggi trentenne e impegnata nel movimento delle donne vittime di violenze nei quartieri delle banlieues. Ma è anche il resoconto di un percorso di uscita da una sofferenza senza parole, e di ritorno alla vita.
Come è possibile che alcune persone, di fronte a una donna stuprata, commentino "se l’è meritato"?
È semplicemente una questione di malafede, considerano la donna un oggetto. Il semplice fatto di trovarsi lì, in quel posto, è la prova che lo si è cercato. E questo diventa anche un argomento a difesa degli aggressori. Il machismo, il maschilismo tradizionale, era dapprima una prerogativa familiare, oggi è "sceso in strada", è diventato senso comune. Ma siamo anche noi – le vittime delle violenze sessuali – a portare in noi stessi il senso di colpa. Nei quartieri domina un clima d’omertà .
C’è chi mette sotto accusa, per gli stupri che avvengono nelle banlieu intorno a Parigi, la cultura islamica. è così?
Ci tengo a precisare che non esiste un’origine culturale, geografica o nazionale costante degli aggressori. Non è una prerogativa dei musulmani, ci sono altrettanti violentatori francesi, africani, antillesi e via dicendo. Gli eventuali pregiudizi che l’Islam può avere nei confronti delle donne non c’entrano niente con le violenze sessuali, non sono la causa diretta degli stupri. Il problema è che nei nostri quartieri periferici della banlieu è del tutto assente un lavoro sociale. Mancano educatori, professori, assistenti sociali. è l’assenza della politica a favorire la logica della violenza, non la cultura francese o quella islamica.
Lei racconta la delusione personale nei confronti delle istituzioni, assenti o, nel migliore dei casi, impreparate. è cambiato qualcosa oggi?
Niente. La situazione è ancora la stessa. Una settimana prima che uscisse il libro in Francia è accaduto un fatto drammatico: una ragazza di nome Sohane, proveniente da una famiglia d’origine islamica è stata bruciata viva. Da questo episodio è nato un movimento delle donne dei Quartiers periferici che si chiama Ni putes, ni soumises, ("Nè puttane nè sottomesse", ndr) di cui faccio parte. Siamo riusciti a portare trentamila donne a Parigi in manifestazione. Per la prima volta è stato infranto il velo d’omertà che copre le violenze sessuali. Per me non è stato più possibile andare a scuola, avere un’educazione normale, sono caduta nella droga, nell’alcool e, a tratti, anche nella prostituzione. La vittima di uno stupro collettivo si trova completamente isolata. Lo slogan del nostro movimento mette in chiaro la nostra condizione: non siamo nè puttane – come ci dipingono nel quartiere, dove di chi subisce una violenza si dice "se l’è cercata", "se l’è meritata", è uscita fuori dei codici – e non siamo neppure sottomesse. Vogliamo reagire.
Dobbiamo anche interrogarci anche sui codici di comportamento che esistono nella strada. C’è fra gli adolescenti un sentimento di adorazione, di emulazione verso chi occupa il primo posto in cima alla gerarchia della forza?
Nei quartieri domina un sistema mafioso. Il riferimento culturale è il film "Il padrino". Di questo sistema fanno parte persone che impongono le loro regole, il loro codice; ma, al tempo stesso, sono persone che non sono andate a scuola, che vivono in situazioni assurde. Le leggi della Repubblica francese non sono arrivate nella periferia. è una minoranza che impone il proprio codice mafioso nei quartieri, e però sono agevolati dal fatto che nessuno di noi abitanti delle periferie è considerato davvero francese. Questo ci spinge alla ghettizzazione e all’isolamento. Purtroppo, queste regole di una minoranza numerica diventano un modo di pensare maggioritario. è assurdo che si parli ancora di integrazione, quando molti di noi sono francesi da almeno tre generazioni. Io sono nata in Francia, parlo solo francese, ho fatto le scuole francesi, sono vissuta in Francia. Mi irrita tantissimo che mi considerino un’immigrata, una maghrebina. La religione è un fatto privato, intimo, e non sociale.
Quel che viene chiamato "islamismo di ritorno" – giovani francesi da due generazioni che riprendono i simboli islamici – non sarà un meccanismo di reazione, di difesa?
È un rifugio per chi non si sente accettato. Il fondamentalismo ha capito questa cosa e l’ha strumentalizzata, ha fatto un vero e proprio lavoro nei quartieri dicendo "voi non siete accettati dai francesi, tornate quindi alla religione, vostra unica identità e salvezza". Questo ha spinto molte persone che vivono in un clima di discriminazione materiale e culturale, nelle braccia del fondamentalismo. Ma si tratta – voglio precisarlo – di un uso politico della religione. Questo Islam mostrato dalla televisione e dai giornali non è affatto quello in cui io mi riconosco. Se le donne algerine vedessero quanto sta accadendo in Francia, non capirebbero: mentre loro si battono per eliminare i simboli religiosi e non portare più il velo, da noi si fa il contrario. Il problema è che in assenza di un lavoro sociale e politico nelle periferie, la religione islamica ha supplito alla domanda d’identità . Per questo molte ragazze vogliono rimettere il velo. Il vero problema non è la religione, ma l’uso politico della religione come strumento di controllo e chiusura dentro un’identità restrittiva. Una comunità costruita su queste basi non lascia spazio all’integrazione.