PERCORSI DI ASSOCIAZIONE

Senza renderci conto sono già  dieci anni che ci siamo inventati l’Associazione Volontari Il Cavallo Bianco.

Partivamo dalla nostra esperienza di condivisione nello sport, nel tempo libero e nel lavoro con persone con disabilità  psichica, ma volevamo evitare di sottolineare soltanto la malattia e l’emarginazione sociale. Il tentativo era quello di guardare con occhio positivo a tutto ciò che ordinariamente viene definito negativo.
Ognuno di noi vive ed assimila la realtà  secondo le proprie personali modalità , che sono frutto della propria personale storia sociale, culturale, politica, religiosa, fisica e psichica. Ognuno di noi percepisce parti della realtà  che altri non percepiscono. La diversità  è il necessario presupposto all’approfondimento ed alla riflessione sulla realtà . Le singole persone, con le proprie sensibilità , affinate da patologie mentali, handicap fisici, esperienze culturali, militanze politiche o cammini di fede, percepiscono solo alcune parti della realtà , con angolazioni e tagli diversi. La verità  è irraggiungibile dal singolo individuo.

L’Associazione nacque come un laboratorio delle diversità  sul territorio, un luogo neutro in cui mettere in comune le proprie presunte verità , al solo scopo di confrontarle con le presunte verità  degli altri. Da lì a poco ci inventammo anche la manifestazione annuale "Tutti in campo per una città  multiculturale". Fin dalla prima edizione della manifestazione, la gente fu invitata a lasciarsi coinvolgere, gridando, cantando e ballando, senza timore di essere giudicata. La madre di famiglia, l’operaio e il manager si venivano a trovare gomito a gomito a ridere delle stesse emozioni, insieme a tante persone ordinariamente emarginate, perché considerate malate o pericolose. La paura del mostro si trasformava nella scoperta della diversità  dell’.

Anno dopo anno, siamo cambiati molto ed il mondo è cambiato intorno a noi.
L’entusiasmo e gli ideali dei primi anni si sono spesso confusi nelle disillusioni e nei compromessi degli ultimi anni. I giovani che sfidavano la vita si sono trasformati in attempati padri di famiglia e in frustrate casalinghe, che tutto possono insegnare al mondo e nulla hanno più da imparare.
Anno dopo anno, abbiamo allestito spettacoli teatrali di grande qualità , abbiamo organizzato eventi sportivi di richiamo ed abbiamo prodotto libri e film di un certo interesse, ma ci siamo allontanati lentamente da noi stessi. Non siamo riusciti più a fare gruppo e a credere fortemente nei nostri sogni. Abbiamo voluto dimenticare i problemi e le sofferenze di tutti quelli tra noi che una famiglia non se la sono costruita ed un lavoro non l’hanno trovato, quelli che dieci anni fa abbiamo tirato fuori dalla prigione della loro casa e che oggi girano tutto il giorno su se stessi, nelle strade dei nostri quartieri. Eravamo riusciti a farci aprire le porte delle parrocchie, eravamo riusciti a convincere la gente a non avere paura, eravamo riusciti a fare integrazione.

Ultimamente, da un paese lontano ci è venuta l’occasione per ripensarci nelle nostre contraddizioni quotidiane e per provare a lasciarci coinvolgere nuovamente. Un po’ per caso, qualche anno fa, alcuni di noi (quelli che una famiglia se la sono fatta ed uno straccio di lavoro l’hanno trovato) hanno ospitato in casa dei bambini bielorussi, provenienti da zona radioattiva in area Chernobyl.
Doveva essere uno dei tanti slanci di buona volontà  e di altruismo, che ogni giorno abbiamo verso il mondo esterno, noi che sognavamo di condividere tutta la nostra vita con i reietti della società .
E invece i bambini ci hanno indicato un’altra via. Noi che volevamo semplicemente ospitarli per un periodo di tempo, siamo stati costretti da loro ad accoglierli.
E loro, insieme ai nostri figli, ci hanno ricordato cosa vuol dire "ascolto". Una parola, un concetto, un’idea ormai da noi dimenticata. Era un esercizio che una volta praticavamo spesso.
Essere come un vaso vuoto pronto a farsi riempire dall’ e, come un vaso con il suo contenuto, creare una reciprocità , che non travolga nessuno dei due, ma che esalti le qualità  e le funzioni di ciascuno.
Stare, senza avere l’ansia e l’angoscia di dovere dare risposte. Innamorarsi della vita, sorseggiare lentamente ogni incontro con l’, come si guarda negli occhi la persona amata, nei primi momenti che ti ha detto che vuole stare con te, quando non vuoi insegnarle niente e ti basta perderti nella sua anima, così come lei si perde nella tua.

Abbiamo voluto vedere dove vivono i bambini di Chernobyl, siamo stati all’Internato di Begoml (un villaggio a 100 chilometri da Minsk, la capitale della Bielorussia), dove vivono circa 160 bambini dai 6 ai 16 anni. L’Istituto è rivolto a persone con oligofrenia, cioè con ritardo mentale ovvero con problemi psichici ovvero con disagio psichiatrico ovvero con disadattamento sociale.

Cosa c’entra tutto questo con "Conversazioni"? Forse niente o probabilmente molto, più di quello che sembra. Sette anni fa pubblicammo un altro libro di Roberto Giacchini intitolato "Il sottoscala del sobborgo", che ancora oggi viene casualmente recensito su qualche giornale o richiesto da persone che ne hanno sentito parlare. Quel libro fu presentato in un afoso pomeriggio di giugno a Roma, insieme al libro di un giovane scrittore, che si cimentava per la prima volta con il tema dell’handicap. In quella occasione, si incontrarono Roberto Giacchini e Umberto Lucarelli, due uomini entrambi immersi in una quotidianità  di emarginazione, uno marchiato come diverso e l’altro elevato agli altari come educatore. I loro libri raccontavano lo smarrimento e la confusione di un operatore sociale e le domande ragionevoli di un potenziale utente dei servizi di assistenza pubblica. I due uomini si sono piaciuti e hanno cominciato a collaborare e, insieme a loro, le Associazioni di cui fanno parte, Il Cavallo Bianco e il bruz. E così è nato "Voci fuori scena", una riduzione teatrale dei loro due libri, in cui si tentava di presentare contemporaneamente due diverse visioni del mondo e della vita, che cercavano di compenetrarsi a vicenda, inseguendosi e non trovandosi mai, nel turbinare delle voci e dei pensieri della gente, che pretende di possedere, solo lei, la verità  assoluta delle cose e del vivere. Quanti viaggi, in andata e ritorno, tra Roma e Milano, al seguito di Roberto, per andare a trovare Umberto, che organizzava improbabili presentazioni di libri in distratte platee di spettatori o che si ostinava a proporre dibattiti dopo lo spettacolo a pochi interessati passanti.

Si sono persi di vista per qualche anno Umberto e Roberto: era il tempo che Lucarelli ha raccontato in "Nulla", quando Sofia se n’è volata via. Di lei abbiamo sempre sentito parlare da Umberto, ma nessuno di noi l’ha mai conosciuta. Anzi, una sola di noi l’ha conosciuta: qualche mese prima della sua morte, è venuta a Roma qualche giorno a casa di Antonella Zucca. Era venuta con una amica a passare il Capodanno e Umberto ci aveva chiesto di trovarle da dormire. Antonella vive da sola, anche lei ha delle difficoltà  fisiche, che spesso servono alla gente per identificarla. è difficile, per lei come per tutti, essere Antonella o Giovanni o Pasquale: è più facile essere il ciccione o l’handicappato o il playboy. Mai più persone nella globalità  della propria esistenza unica e indivisibile, sempre identificati per una qualità  o un difetto.

Quando Umberto non c’era, c’è stata Antonella accanto a Roberto, a immergersi nel suo mare di sogni, desideri e perversioni, con rispetto e attenzione e anche ironia, accarezzando dolcemente i suoi momenti senza sapore. Poi un giorno è tornato Umberto, con i suoi progetti che travolgono tutti. E Roberto si è tuffato nei film dell’improvvisato regista. è "l’uomo che appare" in "Fossimo fatti d’aria", in cui tanti giovani con il marchio della disabilità  si re-inventano , quella Cuba che ormai esiste solo nei ricordi di Umberto e nelle pagine scritte dei suoi libri.
Ma ora Roberto non c’è. è sparito dalla circolazione da tanto tempo. A volte arrivano notizie sulla sua presenza in qualche stazione della metropolitana, a volte di qualche ricovero in clinica, a volte niente di niente. Solo Umberto riesce a parlarci per telefono. Per gli altri, si fa negare. E allora tentiamo una delle ultime carte: pubblichiamo le pagine che Antonella ha digitato sul computer per lui e insieme a lui: forse lo potremo riabbracciare. Qui arriva la nostra strada a questo punto del percorso.

Ma servirà  a qualcosa tutto questo?

GIOVANNI SANSONE

Roma, 17 maggio 2001

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