Spesso si sopravvaluta, perché la si vede, la violenza diretta rispetto a quella indiretta, strutturale, che non percepiamo più come tale se non sentendone il peso. Tipicamente questa è stata ed è la verità delle istituzioni segreganti, e di quella psichiatrica in particolare. Violenza che un qualche ordine lo dà , toglie dalla sensazione di pericolo e aumenta la libertà dei "sani" e delle famiglie che hanno drammaticamente a che fare con il problema del disagio mentale.
Ho lavorato a Ferrara nell’Amministrazione Provinciale in un periodo in cui le competenze delle Province erano "le strade e i matti". Era la fine anni Sessanta, iniziava un movimento che liberava i ragazzi ricoverati negli istituti medico-psico-pedagogici. Ci sono stati assessori che hanno avuto coraggio, fun-zionari incoscienti, e un movimento con un’ampiezza, con una larghezza oggi impensabile, nel quale accanto agli operatori professionali che ne facevano parte per ragioni evidenti – come me del resto, anche se teoricamente potevo limitarmi a firmare degli atti… – era coinvolto un quadro molto più vasto di per-sone a diverso titolo interessate a questo che è stato un grande processo di cambiamento.
Ho in mente assemblee fittissime dentro all’ospedale psichiatrico, con gli infermieri che si fermano a conclusione dell’orario di lavoro per decidere se buttare già un muro oppure no, e questo ogni volta vo-leva dire aprire un altro settore, riprendersi qualcosa che ci era stato strappato, nascosto. Perchè quella mutilazione era anche nostra, non riguardava solo i malati.
Sentiamo oggi la necessità forte di rimettere assieme sensibilità e capacità . Associazioni di familiari che tornano a interrogarsi, in un rapporto con psichiatri e operatori dei servizi, su quale risposta sia giusto dare a un disagio e a una sofferenza che esiste, e rispetto alla quale si è mancato nella capacità di pro-porre risposte alternative. Inizialmente pareva che sarebbe intervenuto "il territorio", grande taumaturgo, proprio come oggi non si fa che parlare di rete senza chiedersi poi chi sarà il ragno, di che qualità il filo, quali insetti si vogliono intrappolare e a cosa ci serve, questa rete che stiamo tessendo. Si insiste sul-la progettazione e coprogettazione ma nessuno o pochi azzardano verifiche su quello che viene fatto, su quello che è da abbandonare o su cui occorre sperimentare ancora.
Di fronte ai tentativi di tornare alle peggiori forme di segregazione, una pura reattività , pur sacrosanta, non è assolutamente sufficiente se non è accompagnata da proposte credibili, se non sa mettere in campo ciò che di meglio si è prodotto, non solo tra gli addetti ai lavori.
Gandhi ripeteva che la disobbedienza civile senza un programma costruttivo non solo è inutile ma rischia di essere criminale. Dobbiamo avere presente con molta forza il nesso tra la nonviolenza e il dolore – e la sofferenza psichica ne è forse il nocciolo più duro – sapendo che, pur riconoscendo necessari tutti gli strumenti che possono essere messi in campo, non ci accontentiamo della medicalizzazione spinta.
La soluzione violenta torna oggi in forme già collaudate, che conosciamo benissimo. Il problema della sicurezza degli "altri" induce ad accettare quasi qualsiasi cosa. Dobbiamo essere vigili, ci vuole niente a perdere conquiste che sembravano acquisite. La violenza fa parte del sistema strutturale nel quale viviamo ed è sorretta da una violenza culturale che ci penetra a fondo, contro cui solo una azione nonviolen-ta coerente e duratura può costruire qualcosa.