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Il problema della risposta violenta alle angosce, alle domande sociali deve essere visto da un punto di vista nonviolento in termini di mancanza o di mancata creazione di un pensiero delle alternative. La nonviolenza è una strategia creativa, cioè mira a dare forme di pensiero e forme di azione alternative, un dato fondamentale e non scontato nel momento in cui si pensano i fenomeni sociali. Per questo oggi è necessario creare nuove forme di pensiero, di interpretazione, di si-gnificazione e risposta al dolore – personale e interpersonale – che sta alla base della sofferenza sociale. L’ipotesi forte è che la nonviolenza non sia un’aggiunta esteriore, secondaria, un palliativo di un sistema più potente di cui si vogliono correggere gli effetti. Esattamente al contrario, ritengo che la questione della violenza e dunque della nonviolenza sia il cuore del dolore mentale.
La mia ipotesi è che una forza, o delle forze sociali, culturali, scientifiche che intendessero porsi solo su un piano di opposizione alle storture, alle carenze, alle derive – istituzionali o meno – della violenza, non riescano ad essere persuasive. In questo momento siamo chiamati ad avere il coraggio e la forza scientifica e culturale di andare oltre una pur necessaria, assolutamente necessaria capacità  oppositiva, per articolare un pensiero interpretativo e propositivo.

In una definizione di Simone Weil, la violenza è la di considerare il proprio mondo mentale – significati, valori, procedure, bisogni – come l’unico degno di esistere, che per essere glorificato va imposto a ogni essere vivente che si trovi a farne parte. Se così è, l’altro va ridotto all’impotenza, piegato perché il proprio sogno si dispieghi, a tal punto che anche l’altro lo sogni suo malgrado, cioè lo accetti coscientemente o comun-que lo subisca; in caso contrario l’altro deve essere piegato, neutralizzato o eliminato. Ancora prima c’è l’idea che solo un mondo, tra i tanti infiniti possibili, possa avere valore, ed è il mio.
Di questo processo si possono dare esempi infiniti, dal piano più interpersonale a quello globale. Se l’unico valore è la razza, il sesso, il genere, chi vuole contestare o far venir meno l’unicità  di questo mondo di valore deve essere eliminato. Questo è un passaggio cruci-le anche per una interpretazione violenta del dolore psichico. Dentro questo principio base, la violenza si pone non come una sostanza. Uno dei paradossi della violenza – miniera straordinaria di paradossi – è la mancanza di un pensiero. Se si prova a fare una ricerca in libreria, si scopre che i libri sulla violenza sono estremamente limitati, a significare una scarsità  di pensiero, di concettualizzazione, come se il problema fosse talmente banale da non meritare riflessione, o quasi si volesse sostenere l’impossibile, cioè che si può fare a meno di pensare.
Una delle conseguenze è che tutti viaggiamo dentro degli stereotipi, pregiudizi scientifici infondati. La violenza viene interpretata di volta in volta come sostanza, come guasto, deviazione, patologia, altro dalla normalità . Deviazioni neuro-biologiche, genetiche, biochimiche oppure cromosomiche o cerebrali vengono poste a radice della violenza. Comunque eccezioni limitate ad alcuni individui.
Al contrario, la storia umana collettiva recentissima ci dimostra che la violenza è una possibilità  per tutti gli esseri umani.

Un’idea che anche noi nonviolenti abbiamo nutrito e superato è una sorta di demonizzazione della violenza, come fosse generativa soltanto di negatività , ma nella mente degli attori questo non è vero. Se vogliamo articolare un minimo di pensiero nonviolento, non facciamo l’errore di iscrivere tutto il mondo che pretende di trovare risposta nella violenza sotto il segno del male. Chi fa violenza ricerca a suo modo un bene. Bisogna saper contestare ogni anello della catena che sorregge questa azione.
Il pensiero nonviolento vuole proporre un altro paradigma sociale. Se è capace di esprimere una contestazione dei singoli passaggi, di evidenziare la contraddizione tra i mezzi e il fine, l’azione critica della nonviolenza non ha limiti, si applica ai fini, agli obiettivi, ai singoli passaggi e al pensiero complessivo, ricerca azioni e desideri facendoli esplodere, mettendoli in contraddizione, cogliendone le ragioni.
Violenza come possibilità , dunque, come struttura di pensiero e di azione perfettamente coerente che si automantiene in modo dinamico appropriandosi di tutti gli elementi che vengono fatti rientrare nella propria sfera di azione, in grado di assorbire ogni elemento. La violenza non è un oggetto, una sostanza, una cosa che sta nelle cose, ma è la strutturazione di un piano di pensiero e di un piano di azione. La violenza è uno sguardo sul mondo, un’azione relazionale, perché sempre implica l’altro, il mondo.
Nella sua costruzione entrano piani diversi: l’incapacità , la non volontà  di bloccarsi, di trovare soluzioni alternative, di sperimentare ad ogni livello dell’azione delle modalità  differenti; l’incapacità  di superare la lettura dell’altro come ostacolo che blocca, come impedimento a sognare il proprio sogno magnifico; la violenza come possibilità  accessibile, necessaria e utile.
Sì, la violenza è utile. Impariamo a cogliere il miracolo che sa compiere! La grande strage inutile della I Guerra Mondiale è il sogno della violenza come chance eccezionale che risolve, porta un intervento dominatore, costituisce la sovranità  sul tempo modificando la realtà , propria e dell’altro. Questa è una delle radici eccezionali della violenza che ritroveremo parlando di psichiatria. Certo, si tratta di correre e far correre dei rischi. Se per risolvere basta eliminare l’altro, allora tanto vale provarci. L’azione violenta, dunque, è strutturata come contesto, mentale e psicosociale, come potentissima calamita. Un polo di aggregazione che ristruttura tutto il campo sociale.
Tutto ha il suo contraltare speculare nel pensiero nonviolento: laddove il tempo della violenza è l’istante, il tempo della nonviolenza è la durata. La violenza è un fattore unico, la nonviolenza è pluralità , distribuzione del potere, il contrario della calamita, l’opposto del pensiero magico. La nonviolenza è la distruzione di ogni magia, di ogni pretesa di risoluzione miracolistica, istantanea.

Della violenza possiamo analizzare almeno tre piani: l’azione immediata, eclatante, che accade; i suoi antecedenti e i suoi effetti, cioè lo sviluppo del processo; infine, il piano che è proprio della nonviolenza, la logica e il significato della violenza.
Oggi vediamo il proliferare di squarci, lampi, situazioni di violenza. Che cosa accomuna tanti eventi sparsi, qual è la logica, quali sono i nessi? C’è un rapporto tra la normalità  del quotidiano e l’ eccezionalità  di alcuni eventi?
La mia ipotesi è che bisogna cercare la logica, i metacriteri, i criteri superiori che si richiamano e rafforzano l’un l’altro. Siamo in un sistema in cui i singoli e i popoli cadono quando tutto il loro orizzonte mentale è costruito attorno a questi schemi.
La logica della violenza è un sistema organizzato e molto preciso, in cui tutto può diventare mezzo e modo di violenza. Non dobbiamo cercare la violenza nell’oggetto, ma nella logica che guida questo sistema che tutto è capace di assorbire. Oggetto, causa, terreno di scontro può essere tutto.
Vediamo alcuni di questi criteri:
– RIGIDITÀ E FISSITÀ: è la tendenza a precostituire il proprio mondo, per cui l’ordine imposto non si può cambiare. Le leggi fissate una volta per tutte valgono di fronte ad ogni altra novità , e chi vuol cambiarle è il nemico.
– CHIUSURA: è progressiva, costante, sempre più grave, e scatta in risposta ad una situazione di violenza subita.
Nella storia di una persona paranoica, se si va ad indagare con attenzione e sensibilità , si riscontra una chiusura di eccezionale importanza che ha portato alla esplosione del delirio e della crisi psicotica in forma non più sostenibile, un processo di terribile impenetrabile incoercibile chiusura; il costituirsi del mondo mentale, espressivo e relazionale all’interno di una cortina sempre più chiusa, impermeabile, coriacea, respingente. Nello sviluppo della paranoia la chiusura coincide con il secondo tempo, mentre il primo è l’invalidazione, la squalifica di sè, il collasso, la catastrofe della stima, del senso del proprio valore intimo e non contenibile. Quando tutto è compiuto si è pronti per il terzo passaggio: la tragedia. Se io sono una nullità  perché non ho in me una fonte primigenia del mio spessore, se sono sempre più isolato, costretto a rintanarmi, se i miei tentativi di valorizzarmi nel mondo hanno prodotto il nulla e mi sento costretto ad arroccarmi in un fortino ancorchè invivibile perché qualcuno ha agito per togliere valore, senso, dignità , sostanza alla mia vita… Allora l’altro può figurare solo come nemico, l’altro deve essere responsabile, colpevole. Il distanziamento è già  avvenuto, l’altro è il nemico e come tale va attaccato. La violenza prosegue come una forma difensiva e il cerchio si chiude.
– ESTREMIZZAZIONE, ESCA-LATION: non si dà  violenza senza escalation, senza un sistema che progredisce e si rafforza. è un sistema mobile, vivente, che cresce e fa maturare i suoi frutti fino a concepire il potere assoluto. Non sono ammessi spazi di mediazione, di compromesso. Il solo pensarli sarebbe ammettere che il mio non è l’unico sogno possibile.
– NEGAZIONE DI CIÒ CHE è FUORI DI ME: nella logica della violenza l’altro non è mai ascoltato, interrogato, visto. E un’entità  pericolosa da allontanare con la volontà  di colpirlo, di procurargli un danno, di annichilirlo oltre ogni confine, limite, vincolo.
È tragicamente ridicolo chi si meraviglia perché nelle guerre non vengono rispettati certi codici di comportamento. Laddove c’è violenza tutti i piani devono essere invasi, non è possibile che qualcosa si salvi. Nel momento in cui si sposa la logica della violenza tutto l’universo ne è dominato, e invocare dei territori franchi significa commettere una criminale ipocrisia. La logica della violenza è un universo coerente, il sogno è un sogno totale.

Alcuni tratti caratteristici di questa dinamica si riscontrano anche in certa parte della psichiatria, ad esempio la schematizzazione dell’altro, l’indisponibilità  ad entrare nell’autocritica, l’incapacità  di ascoltare e di ricostruire la storia. Cartelle, relazioni, rapporti trasfor-mano i pazienti in schegge, meteore di un universo vuoto. Non esistono più contesti familiari o relazionali, appartenenze, vincoli, legami – e questa è una violenza inaudita. E sì che gli strumenti concettuali ci sarebbero tutti. Eppure si assiste sistematicamente all’abolizione della storia del paziente. Si parla magari di una persona con una crescita "normale" che poi in adolescenza, o durante il servizio militare, manifesta una "inspiegabile" crisi psicotica. è proprio il segno di una mancanza di attenzione allo sviluppo interiore e mentale del paziente.
Il rammarico non ha presupposti buonisti, non è un discorso etico ma scientifico, ancorchè eticamente fondato, perché non operare una ricostruzione – che è sempre interpretazione e si espone sempre al fallimento – della storia che ha portato la persona a diventare ciò che è oggi, significa non capire nulla delle strutture cognitive del paziente, rinunciare a dare un significato. Punto cruciale e irrinunciabile di un pensiero nonviolento è proprio la capacità  di ricostruire i significati che quella persona e non altre dà  alla propria storia.

La nonviolenza è la capacità  di costruire ipotesi, di non dare per scontata la verità . L’apporto scientifico della nonviolenza è quello di una filosofia che ha un’idea contestuale della verità . La verità  non è scritta fuori dalle interpretazioni. Gandhi, vivendo in culture profondamente diverse tra loro, ha pensato la differenza, che non a caso è il problema cruciale del nostro mondo. Come pensare alla diversità ? E richiesta la capacità  di costruire consensualmente, ma in modo niente affatto pacificatore, il significato della propria storia. Ogni paziente ci pone di fronte ad una domanda forte: qual è il significato del suo soffrire? Quand’anche la persona stessa abbia incapacità  di arrivare ad una conclusione, c’è il tentativo di raggiungere comunque un senso. Il fronte avanzato della psichiatria ha sempre tentato di ripercorrere questo cammino: come si sono costruite le strutture, come la persona ha eretto una impalcatura concettuale ed emotiva per cui dentro una storia molto precisa, e sempre individuale, ha intrapreso un percorso di sofferenza che in un processo realmente terapeutico, cioè di incontro, umano e professionale, deve essere decodificato, non semplicemente andando a ritroso ma ricercando i presupposti di questo universo.
Cosa c’entra allora la psichiatria con l’ottica nonviolenta? Poco, se si illude di intervenire per bloccare, per mettere a tacere, per stabilire e imporre un ordine statico senza ricostruire.
Fuori dalla consapevolezza che tutti i nostri strumenti interferiscono su questa rete di relazioni, la psichiatria rischia di farsi garante della violenza del più forte sul più debole. Corre il rischio di produrre oppressione nel momento in cui sogna di imporre un ordine senza capire quali sono i contesti, la storia, il significato che hanno portato quella persona a vivere quegli incubi.
In un paradigma nonviolento, cioè che ammette il sogno dell’altro, il diverso per eccellenza – il folle – ha bisogno di essere compreso nelle proprie radici di chi ritiene di aver subito violenza. Il fallimento della psichiatria non è dato solo dalla violenza che esercita, ma dal non sapersi fare carico del significato del dolore su cui interviene.

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