– a cura di Jacopo Fo(Visto che la situazione è quella che è forse ci conviene passare qualche tempo a meditare sulle basi del nostro modo di vedere la vita…)

08 giugno 2003

Il mio amico Riccardo Pelosi ha aperto un seminario di Yoga Demenziale raccontando la sua incredibile, tragica storia. Nel 1999 il suo matrimonio è andato in pezzi e subito dopo sua madre e suo padre si sono suicidati.
Nel suo discorso asciutto e pratico, da imprenditore piemontese, ha osservato di essere riuscito ad affrontare questo dolore perché da anni aveva lavorato per ampliare le sue "risorse psicologiche".
A quattro anni di distanza la sua vita ha un’ottima qualità e, in qualche modo si è fatto una ragione di quel che gli è accaduto. Ed è riuscito a reagire "in positivo" al dolore, ad esempio, creando in memoria dei suoi genitori una fondazione contro la depressione che regala corsi di comicoterapia. L’obiettivo è ampliare il patrimonio di risorse che ognuno ha dentro di sÈ.
L’idea puo’ suonare strana ma è molto semplice: nella nostra vita non possiamo sfuggire a una certa dose di dolore. Possiamo essere prudenti e vivere rischiando il meno possibile ma comunque nulla ci puo’ evitare un tot di sfiga.
Ma a parità di dolore il modo di reagire degli esseri umani è estremamente diverso. C’È chi viene annichilito e non si riprende mai piu’, c’è chi sopravvive a fatica, chi reagisce e cerca di trasformare il dolore in una fonte di energia negativa e decide, ad esempio, di distruggere il genere umano in quanto specie animale schifosa. C’È poi chi trasforma il dolore in una fonte di energia positiva, lo sublima, lo scioglie, esprimendolo con l’arte, l’amore, la solidarietà.
Attenzione, so che qualcuno già si sta innervosendo. La parola "positivo" dà sui nervi a tutti quelli che sono stati indottrinati da qualche cultore del Pensiero Positivo. Anch’io odio il pensiero positivo!
"Se sei ottimista non ti succederà mai niente di male!" Cosi’ quando invece una cavolo di tegola ti cade in testa oltre al mal di capo hai pure l’angoscia e il senso di colpa: "Se ero piu’ positivo non mi succedeva!"
Ma va a quel paese!
No, il mio discorso non c’entra niente con il Pensiero Positivo.
Io dico soltanto che reagire in modo positivo alle disgrazie è meglio.
Non ti toglie il dolore, certo.
Non ti evita di vivere il lutto, certo.
Ma ti permette di rinascere.
Sto dicendo una cosa grande come una casa: qualunque cosa ti succeda, forse, hai la possibilità di continuare a vivere.
Dico "forse" perché non sto proponendo nessuna bacchetta magica.
Credo che sia idiota pontificare sul dolore.
E credo di aver sofferto nella mia vita.
Ma non so dire cosa sarebbe successo se il dolore fosse andato oltre un certo livello.
Non so neanche se esista questo livello.
Se ripenso ai momenti della mia vita durante i quali i fatti mi hanno annichilito, non so dare una misura al dolore.
Non credo che sia misurabile.
Se ti dai una martellata sopra un dito senti molto male. Ma se riesci a colpirti due dita contemporaneamente non è che fa piu’ male (puoi fare l’esperimento impugnando due martelli, uno per ogni mano, e colpire simultaneamente entrambi gli alluci).
Ma questa è solo teoria. In pratica credo che ognuno abbia una soglia di dolore al di là della quale sviene, impazzisce o muore. E questo è un bene.
Conosco persone che hanno subito dolori che io giudico incommensurabili. Loro si sono ripresi, sono riusciti comunque a dare un senso nuovo alla loro vita. Io non so se ci riuscirei. Non mi interessa neanche di riuscirci. Rivendico il mio diritto a non sopportare il dolore al di là di un certo punto. Rivendico il diritto di ogni essere umano di rifugiarsi nella disconnessione mentale e nell’autismo.
Comunque, so che, quando è possibile, è bene che una persona riesca a riprendersi. A rinascere.
Ho usato già due volte la parola "rinascere" e con questa fanno tre. Credo che sia il termine adatto. Quando il dolore supera una certa soglia la nostra vita, da un certo punto di vista, cessa di essere quel che è stata fino ad allora. Crollano gli schemi mentali, i modi di pensare, come si sente, come si ascolta. Si è costretti a buttare via i vecchi schemi mentali, le convinzioni. Bisogna ridiscutere tutto il sistema di valori che domina la nostra mente. Un’identità muore e ne nasce una nuova che deve ricreare un’identità, un punto di vista.
Quando avevo diciassette anni mia madre fu rapita, massacrata di botte e violentata da un commandos fascista.
Ancora oggi mi è difficile scrivere questo. Sono passati solo 31 anni.
Il fatto che tua madre sia violentata, ustionata con le sigarette accese e tagliuzzata in tutto il corpo con lamette e che torni a casa sotto shock e che ci resti per mesi è una di quelle situazioni che è meglio non sperimentare.
Quando mi successe io ero quasi completamente sprovvisto di strumenti culturali. CioÈ, non sapevo come affrontare il dolore. E comunque li’ per li’ non mi sarebbe servito. Quando la tua vita va in pezzi nessuna tecnica è utile. Puoi solo soffrire e farlo senza vergogna.
In effetti questo mi fu molto utile. Nella mia famiglia non c’era nessun macismo. è una famiglia matriarcale. Quindi nessuno pretese che io facessi il duro. Tutti avevano il diritto di piangere e di sfogarsi senza ritegno. Non mi si chiese di fare niente. Cerca di sopravvivere fu il messaggio della famiglia. Nessuno discusse sul fatto che abbandonassi la scuola, smettessi di rivolgere la parola alle persone, mi tagliassi i capelli a spazzola, iniziassi a girare con la giacca.
In quei primi mesi il mio scopo era la vendetta. è una reazione primaria che puo’ tenerti in vita. Per almeno venti giorni restai in casa con mia madre che ogni tanto perdeva conoscenza e ricadeva nell’incubo dello stupro e iniziava a urlare e a piangere. Ogni tanto mia madre si accorgeva che avevo gli occhi vuoti e mi chiedeva: "Che c’è?"
Io non potevo rispondere perché avrei potuto solo dire: "Tatatatatatatatatatata".
Non avevo altro nella testa. TA TA TA TA TA. Sostanzialmente avevo nella testa solo un mitragliatore che sparava a raffica sterminando esseri umani di idee politiche reazionarie. Dopo venti giorni uscii di casa, mi comprai un coltello con una lama di 35 centimetri e iniziai a cercare qualcuno da uccidere. Il mio problema era che volevo uccidere qualcuno in particolare: chi aveva violentato mia madre e chi aveva ordinato quell’azione. In quei giorni furono molte le teste di cazzo che mi dissero che erano in grado di scoprire chi era stato. Imbecilli di Potere Operaio e delle Brigate Rosse. Ma raccontavano solo palle. Mi resi presto conto che da solo non potevo trovarli e quindi mi iscrissi a un’organizzazione terroristica. Avevo bisogno di una buona formazione tecnica e di un gruppo che mi aiutasse. Imparai a sparare e a trafficare con l’esplosivo.
Poi un giorno andai a un appuntamento segreto, mi misero una pistola in mano e mi dissero di andare a rapinare una salumeria.
Guardai il mio istruttore militare e gli dissi che era pazzo. Checcazzo c’entrava un povero salumiere con chi stava affamando il mondo e straziando la mia anima?
Mi resi conto che la lotta armata era servita per anestetizzarmi per mesi. Avevo pensato solo al desiderio di uccidere, a come farlo, a come prepararmi. Avevo vissuto in uno stato ossessivo totale. Pensavo unicamente e solamente a quello. E cosi’ potevo non ascoltare il mio dolore.
Uscii dalla lotta armata nel luglio del 1974. Per mia fortuna senza aver mai sparato un solo colpo.
Evidentemente a Dio non piacque perché immediatamente mi puni’ facendomi innamorare perdutamente, regalandomi un mese di estasi totale e gettando poi la donna dei miei sogni nel letto di un tipo piu’ bello di me che dormiva nella camera a fianco alla mia in una comune di Lisbona, appena liberata dalla Rivoluzione dei Fiori.
Torno a casa psicologicamente alla frutta, anzi due metri sotto la frutta, quasi in coma per un ascesso esplosivo all’incisivo sinistro, quello che mi era piu’ simpatico.
Ho la faccia come un’anguria deformata e mangio solo pappine con la cannuccia.
Inoltre soffro di cistite cronica sanguinante, acne, alopecia, eiaculazione precoce, impotenza, assenza di orgasmo durante l’eiaculazione, gastrite, coliche renali e diarrea.
Mi innamoro di un’altra donna che non mi si fila di pezza e che bontà sua mi consiglia agopuntura e macrobiotica. Divento un fondamentalista islamico del riso integrale, un ferreo teorico della soya e della gioia. Un kamikaze dell’automassaggio doloroso (una forma di autotortura giapponese) e contemporaneamente divento un fottutissimo porco disegnatore di satira politica molto pornografica, mi ammazzo di acidi, marijuana, morfina, cocaina, psilocibina, oppio, alcool e di qualunque cosa possa annebbiarmi la mente in maniera da provocarmi un’anestesia locale totale.
Insomma, continuo a navigare nella mia merda ma almeno galleggio. Riesco a evitare l’arresto per banda armata, tengo il livello delle droghe su parametri bassi, circoscrivo la cistite con tecniche sufi e arresto la caduta dei capelli con il movimento rallentato. Insomma sopravvivo.
Finché è proprio mia madre a salvarmi. Ed è incredibile che ci sia riuscita visto che nel frattempo è finita sotto una macchina, è restata paralizzata a un braccio e a causa di un danno ai nervi, prova 24 ore su 24 lo stesso dolore che ha sperimentato dopo l’incidente.
Ma evidentemente non è una tipa normale.
Un bel giorno mia madre, col suo braccio sinistro paralizzato, sale sul palcoscenico e recita un pezzo che, dice, è la testimonianza di una ragazza. In realtà l’ha scritto lei ed è il racconto preciso e puntuale di come l’hanno rapita e di quello che le hanno fatto. Non l’aveva mai raccontato a nessuno. Riesce a raccontarlo davanti a mille persone. Negli anni recita questo pezzo centinaia di volte. Piu’ di mille volte. E tramite questo racconto riesce, lentamente, negli anni, a superare in parte il trauma. Sanandolo con la sensazione che il pubblico, ammutolito in platea, abbia la capacità di togliere quel dolore, di portarsene via un pezzettino per volta. Ognuno un pezzettino piccolo, che non gli sia troppo pesante. Cosi’ mia madre riesce lentamente a ritrovarsi.
Anni dopo, a causa di una violenta depressione non riesce piu’ a mangiare senza vomitare immediatamente. Si accorge pero’ che quando, a causa delle esigenze di una commedia, mangia sul palcoscenico qualche forchettata di spaghetti, riesce a digerirla.
Cosi’ mette in scena un monologo sulla sua vita e alla fine spiega che è costretta a continuare a recitare perché solo in scena riesce a mangiare, un’assistente porta un piatto di spaghetti e lei inizia a mangiare in silenzio, davanti a tutti.
È cosi’ che mia madre ha inventato una nuova forma di teatro. Il teatro che cura il dolore degli attori. E anche quello del pubblico. E ha curato anche il mio dolore.
Si’ perché chi ha visto mia madre raccontare la sua disperazione si è subito reso conto che quel racconto era la medicina.
Cosi’ ho imparato a raccontare il mio dolore. Vedendo che a mia madre faceva bene iniziai anch’io a scrivere pezzi della mia vita. E sperimentai che era molto positivo.
Iniziai con dolori facili, come quello di sorprendere la donna che ami, nuda e abbracciata a un altro uomo (attività autodistruttiva nella quale mi ero specializzato). Poi passai a qualche cosa di piu’ complesso come descrivere che cosa ti succede quando stai facendo l’amore con la donna piu’ bella e piu’ dolce del mondo e il tuo membro virile dà le dimissioni.
E cosi’ scoprii che le donne adorano se riesci a raccontare in modo comico i tuoi disastri amorosi e sessuali. Si inteneriscono e ti fanno cose che non ti farebbero in nessun caso.
Col tempo sono diventato un esperto.
Ne ho fatto la mia professione e sono riuscito a vendere 400 mila copie dei miei libri… Cosi’ ho sviluppato una certa dose di anticorpi al dolore. Quando soffro mi chiedo se, dopo qualche anno, riusciro’ a raccontare ridendo quel che è successo. Se decido che è possibile farlo il dolore si attenua immediatamente. Mi consolo pensando che magari ci faro’ un best seller.
Ovviamente questo modo di reagire non funziona sempre. Nella trasmissione "Gli invisibili" hanno intervistato un uomo che aveva una bella attività imprenditoriale nel settore ecologico, una moglie che adorava e 5 figli. Poi un giorno gli bruciano la casa e la moglie e i cinque figli muoiono nell’incendio. E lui da allora non ha piu’ voglia di niente. Fa il barbone. Vive per strada e aspetta solo di morire. Aspetta che finisca questo brutto film.
Cosa farei io al suo posto?
Credo che abbia scelto la cosa migliore.
D’altra parte c’è la storia del prigioniero americano in un carcere iraniano. Era presidente Carter quando imprigionarono piu’ di cento funzionari Usa. E non li trattarono molto bene. Uno di questi inizio’ a chiedersi che cosa poteva fare oltre a prendersi le botte. E decise di reagire in modo attivo alla detenzione. CioÈ quando entravano nella sua cella si alzava in piedi, salutava e diceva frasi tipo: "Benvenuti nella mia cella." Completamente idiota. Ma questo atteggiamento gli permise di mantenere il cervello a posto (piu’ o meno) per tutto il tempo della detenzione. E indusse anche le guardie a trattarlo con piu’ rispetto. Magari gli chiedevano anche "Come va?". Assurdo certo. Ma questo prigioniero usci’ quasi intero dall’esperienza a differenza di parecchi sui colleghi di prigionia. E nei mesi successivi alla liberazione fu tra quelli che aiutarono chi aveva perso il lume della ragione a ritrovarlo… Quando era possibile.
Un caso simile avvenne nello stadio di Santiago, trasformato in campo di concentramento dopo il colpo di stato e l’uccisione di Allende. I prigionieri venivano quotidianamente sottoposti a tortura e per resistere iniziarono a torturarsi tra di loro nel tempo libero.
Agghiacciante, pazzesco. Ma meglio di niente. Bisognerebbe essere stati al loro posto per giudicare.
E che dire di Primo Levi che trovava conforto nel campo di sterminio nazista disegnando ritratti ai suoi compagni di agonia? E che dire delle madri che riescono a ridere insieme ai claun-dottori mentre hanno tra le braccia il loro bambino morente?
La storia del dolore umano è piena di esempi di come, nelle stesse condizioni di disperazione, sia il reagire o il non reagire al dolore è la discriminante. Chi reagisce, intendiamoci, non soffre di meno. Ma ammortizza in modo piu’ efficiente il male che prova.
So che molti stanno storcendo il naso: "Ma che modo di parlare del dolore è questo?"
Mi torna alla memoria una targa avvitata in tutti gli ascensori dell’ospedale San Raffaele di Milano: "Qui si celebra il rito della cura e del dolore."
Si è vero io sono irrispettoso verso il dolore. Non gli riconosco nessun valore positivo. Il dolore è solo una sensazione orribile, impietosa, ingiusta e mi colpisce totalmente senza rispetto per niente. Nessuno ha il diritto di violentarmi, nessun caso divino è accettabile. Il dolore è una colpa imperdonabile per chi lo crea. E se esiste un Dio non puo’ certo andarne fiero.
Per questo credo che l’essere umano abbia innanzi tutto il diritto inalienabile di fuggire il dolore con ogni mezzo, dall’anestesia all’eutanasia. E credo che qualunque comportamento mi consenta di vivere andando oltre il mio dolore sia sacro.>br>
Continuare a vivere e a provare gioia qualunque cosa sia successo è un diritto. Attenzione: un diritto non un dovere.
E mi interessa conoscere tutti i modi con i quali posso limitare il dolore, lasciarlo andare, dimenticarlo o distrarmi da esso.
Accettare questa idea, innanzitutto, non è stato per me facile. Sono figlio di quella cultura del dolore che fa dell’Italia il paese del mondo dove si consumano meno antidolorifici. Non sto esagerando. Perfino in Camerun ne consumano il doppio che da noi.
Quando soffriamo, quando la vita si abbatte su di noi, possiamo innanzitutto iniziare da questa idea: "Ho diritto a cercare di soffrire il meno possibile."
Il primo passo per arginare il dolore è quello di riuscire a raccontarlo. Non raccontare la propria sofferenza la raddoppia. Chi non ci crede vada a consultare gli studi statistici sui malati terminali. Quelli che hanno la possibilità di parlare con altri malati raccontando la propria sofferenza hanno un’aspettativa di vita residua doppia di coloro che non hanno modo di sfogarsi. Il silenzio ingigantisce il dolore e lo rende distruttivo.
Nella mia vita sono andato sempre alla ricerca della gioia ma mi è capitato piu’ volte di essere vicino a persone che soffrivano oltre il limite dell’accettabile o che stavano morendo.
Ogni volta ho notato come ci fosse un meccanismo essenziale a determinare la quantità di dolore che percepivano.
Questo meccanismo è basato sul senso della colpa. Quando soffri è facile che il dolore sia accresciuto dalla convinzione che "avresti potuto evitare quel che è successo". Generalmente si tratta di un’idea completamente assurda ma cio’ non le impedisce di essere assolutamente efficace e capace di distruggerti.
Alcuni preferiscono farsi male in altro modo: danno la colpa di quello che è successo agli altri. è meglio che darla a se stessi ma è un modo di reagire altrettanto inefficace. Soffri come un cane perché odi con tutte le tue forze i colpevoli del tuo dolore. E questo odio, spesso unito al desiderio di vendetta, è assolutamente fantastico per farti continuare a vivere nel dolore, coltivarlo, farlo crescere, farne l’unica ragione della tua vita. Addio feste, addio sciocchezze, risate, senso del comico, leggerezza e spontaneità. Ti trasformi nel tempio della tua rabbia e nessuno puo’ piu’ entrare per farti una carezza.
La terza delle soluzioni presenti nella hit-parade dei modi urticanti per reagire al dolore consiste nello sfidare il mondo a farti ancora piu’ male. è la sindrome della vittima designata. Scopri rapidamente che quando ti vesti da vittima attiri i violenti e i prevaricatori come il miele. E piu’ ti fanno male, piu’ soffri perché nessuno ha pietà di te. C’È un tipo in America che è stato studiato da un gruppo di ricercatori coordinati dal grande Watzlavich (autore di "Istruzioni per rendersi infelici" edito da Feltrinelli).
Il motivo di tanto interesse è che questo signore è stato rapinato 75 volte in 5 anni.
Alla fine i ricercatori hanno sentenziato che tutto in questa persona sembrava fatta apposta per indurre una persona aggressiva e disonesta ad approfittarne. Dal modo di camminare al colore della cravatta tutto in lui gridava: "Stronzo, perché non mi rapini?".
Sul versante opposto se la cavano meglio quelli che di fronte al dolore non si occupano tanto di dare la colpa a qualcuno (ammesso che un colpevole ci sia, che mi cambia?) ma si concentrano sul cercare il modo di cambiare, come adattarsi alla nuova terribile condizione della propria mente.
E, quando è possibile, utilizzano questo dolore per rinnovarsi, per ampliare la propria percezione e coscienza del mondo.
Nella vita anche le esperienze agghiaccianti ti possono insegnare qualche cosa. E la morte ingiusta (quando mai è giusta?) di qualcuno che ami puo’ essere il suo ultimo regalo per insegnarti a crescere.
Ad ampliare il tuo essere ricettivo, umano, modesto, solidale.
Penso alle "Nonne di Plaza de Majo". Le madri dei ragazzi rapiti e uccisi in Argentina. Penso al loro dolore, alle loro vite. Il dolore le ha fatte diventare parte della ruota inarrestabile del progresso. Ogni domenica, per decenni hanno sostato in silenzio in quella piazza, chiedendo di riavere i loro figli. La dittatura le ha calpestate e alla fine è crollata e loro sono ancora li’, a cercare i loro nipotini rubati alle madri prima che venissero narcotizzate e gettate nell’oceano dagli aerei-merci. E ancora riescono a trovarne di nipotini. Insaziabili.
Non c’è nulla di buono nel dolore ma a volte il dolore riesce a fare di noi degli eroi.
La lotta lenta, inarrestabile di chi è sopravvissuto al dolore, insieme alla capacità di provare gioia e di ridere delle follie di questo pianeta costituiscono la forza che lenisce la follia del mondo e lentamente lo migliora. E se non credete che il mondo migliori passate una settimana nell’antica Roma o nella Milano del 1901 e poi sappiatemi dire.
Non è un discorso semplice, nÈ un argomento di grande presa questo che ho cercato di trattare, me ne rendo conto.
Ma credo sia un punto essenziale per chiunque sapere che la propria capacità di soffrire meno a lungo dipende dalla capacità di adattarsi a quel che ci succede. Essere flessibili e sempre alla ricerca di cosa puo’ stemperare il dolore. Pronti a cambiare punto di vista, abitudini, modi di essere pur di trovare una nuova linea di galleggiamento. Se ti distruggono la nave vedi se c’è una botte ancora intatta, salici sopra e inizia a remare.

Insomma, alla fine del mio ragionamento quel che posso dire È: cerchiamo di non farci male. Ma se capita vediamo se è possibile continuare a vivere. A morire c’è sempre tempo.

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