Eravamo seduti io e Giacchini, lo scrittore, al bar della stazione e c’era il sole e i tavolini erano rotondi e le sedie e i tavolini erano di latta, così parevano, argentati e luccicavano al sole mentre noi guardavamo il cosiddetto panorama umano. Anche se Giacchini non vedeva quasi niente, anche se Giacchini aveva gli occhiali e io no, anche se Giacchini non poteva vedere granchè perché è mezzo cieco e chissà cosa vedeva delle cose che gli dicevo di osservare, facevo gli elenchi, dicevo: "Guarda gli indiani che mentre parlano si tengono per mano". Dicevo: "Guarda che ambientino che c’à qui, puoi venirci a scrivere". "Anche a Villa Borghese à bello", rispondeva Giacchini. "Sì, sì", rispondeva Giacchini ai miei elenchi. Noi due, con i caffè al "vetro", corretto "Mistrà " che a Livorno si chiama "Sassolino". Il caffà prende il sapore del sasso. Di un piccolo sassolino grigio, tipo ghiaia però liscio. Un sassolino di quelli che ci sono sulla spiaggia, piccoli, rotondi e allungati, come le arselle. Mia madre mi faceva un brodino di arselle e ci inzuppavo il pane. Chissò cosa vedeva Giacchini: "Andiamo a bere un caffè", gli dicevo e lui: "Sì grazie". "Andiamo, pago io, caffè corretto" dicevo. E lui: "Sì grazie", con la stessa voce, l’identico tono, la cadenza: Sì grazie. Giacchini. "Veniamo qui e ci mettiamo a scrivere", dicevo. "Noi, gli esimi scrittori" dicevo. "Cosa vuol dire esimio?", si mette a chiedere Giacchini. "Due illustri, come noi, eccellenti, straordinari, celebri", dico io. "Ah, ecco", fa Giacchini lo scrittore, "mi pareva", dice e sorride. Accomodato bene sulla sedia, il giubbotto aperto sulla pancia enorme, la maglietta bianca sbrodolata di caffè e di Mistrà . I capelli rasati, bianchi alle tempie, gli occhiali. Il suo modo di ciucciare la sigaretta. Il mio amico Giacchini, lo scrittore. Andavo a Roma una volta al mese a fare il "curatore" della sua scrittura. Il suo "consulente" personale.