Prima di cantare al microfono libero del Teatro al Parco la sua canzone d’autore, Stefano saluta i "telespettatori" e "colleghi di San Remo". Poi s’inchina alla sconfinata platea immaginaria che l’ha applaudito e se ne va rilasciando autografi firmati D.J. Stefano, probabilmente Disk-Jokey Stefano. Per la serata bis dell’happening organizzato da Dario D’Ambrosi, "Il teatro è malato", nel quadro del suo festival di Teatro Patologico, sono tornati i protagonisti del primo evento d’apertura: attori celebri e ragazzi cerebrolesi o schizofrenici in cura a Villa Lais e con l’associazione del Cavallo Bianco.
In pista (lui, sì, davvero), nel circo sanremese per parlare del suo film con Paolo Rossi, Sergio Castelletto, tuttavia, era presente soltanto con un video appositamente girato prima di partire da Roma. Nino Manfredi, ormai un adepto del Parco e dell’esuberante D’Ambrosi invece non ha mancato neanche questo secondo appuntamento che concludeva la rassegna teatrale. In accappatoio azzurro con i piedi a bagnomaria in una tinozza di vernice colorata, mentre fuori diluviava, Manfredi ha accolto il pubblico, insieme agli otto protagonisti della serata seduti in semicerchio con accappatoi gialli, rossi, verdi. Un arcobaleno di colori che pian piano si è mescolato sulla tavolozza bianca della scena ogni volta che i ragazzi si alzavano per leggere le loro poesie e brevi frammenti autobiografici. Metafora, sotto un crocefisso vivente da "body-art", con un Cristo tatuato e scosso da scariche di riso, della folle insensatezza della vita che a volte scompagina l’ordine della mente, non solo quello dei colori.
Di questa insensatezza testimoniavano le storie dolorose e allegre, toccate spesso dalla scintilla di una sorprendente grazia affabulatoria, dei "mattacchioni" come, identificandosi a pieno titolo, usa chiamarli D’Ambrosi. Storie raccontate da Gianni, Maurizio, Antonella o Roberto, autore di un libro sulla sua privata odissea costellata di raptus di ribellione e violenza verso il mondo o la famiglia come è. Con parole semplici, leggerezza e una capacità di oltrepassare la piatta soglia di una visione "normale" delle cose. La voglia liberatoria di confessarsi contagiava anche il conclusivo monologo di Manfredi. Quel suo affermare che "dal dolore nasce tutto, dal benessere niente". In particolare nasce il desiderio di far ridere gli altri, o d’inventarsi le favole che lui ha cominciato a raccontarsi da bambino: "Uscendo ed entrando dagli ospedali ho passato quasi tutta l’infanzia e l’adolescenza, dai 3 ai 15 anni; chiuso gli ultimi tre anni al Forlanini con la tubercolosi che allora non dava speranze". A tenergli compagnia, nella solitudine e in quelle paure, il nonno contadino, poverissimo, emigrato in America, di pelle coriacea e straordinario senso dell’ironia. Ascoltando Manfredi sul suo mitico nonno, un grande uomo qualsiasi, tornavano in mente le storielle surreali di Zavattini ne "I poveri sono matti". Un’equazione in sintonia col manifesto di D’Ambrosi e con la sua testarda ricerca degli sconfinamenti fra teatro e follia.