ESTATE ROMANA 2003
Manifestazione "FONTANONESTATE 2003 – Ottava edizione"
COMUNE DI ROMA – Assessorato alle Politiche Culturali, Dipartimento Cultura, Ufficio Spettacolo
Associazione Culturale Istituto Studi dello Spettacolo TEATRO STUDIO
in collaborazione con Associazione Culturale ARIES
25 luglio 2003, Venerdì sera, le undici passate, uno sparuto gruppo di spettatori in attesa in uno spazio inventato dal nulla.
Accanto al Fontanone del Gianicolo, in via Garibaldi, siamo convenuti in pochi ad assistere ad uno spettacolo di cui nessun giornale ha parlato, "Confesso tutto" di Massimiliano Carrisi.
Poche sedie, una rampa per l’accesso alle persone disabili, uno sfondo nero, un mucchio di paglia sparpagliato per terra, rumori in lontananza dal bar all’aperto lì vicino.
All’improvviso, buio…passano i secondi e non succede niente. All’improvviso, giunge di corsa un uomo vestito di bianco, gli abiti logori, il viso scavato da indecifrabili sensazioni interne. Si mette in un angolo, è appena illuminato da una flebile luce, mentre riecheggia la registrazione di una voce, che evoca imprecisati precipizi dell’anima, demoni della perversione e abissi in cui sprofondare.
Poi è di nuovo buio e l’uomo vestito di bianco si sdraia a terra, a pancia sotto.
Una luce gialla lo illumina, si alza e comincia a biascicare racconti, che sembrano provenire dal profondo della memoria sofferente dell’umanità . Parla, parla e parla. Si muove in avanti e indietro, è difficile capire di cosa parla, che cosa vuole da noi lì convenuti. Non trova il respiro, manifesta un’ansia e un’angoscia che gli impediscono di comunicare come forse vorrebbe. Non si capisce da dove è arrivato, anzi se è lui che è giunto a noi oppure se siamo noi che siamo stati catapultati nel suo spazio. Non si capisce se sia un uomo reale, un fantasma, un’anima in cerca di pace. Siamo di fronte ad un folle, a un carcerato in attesa di giudizio, ad un condannato a morte o ad un innocente sacrificato? I suoi abiti bianchi e la sua apparente inappartenenza all’umanità lo mostrano ai nostri occhi come una figura della liminalità , al margine tra vita reale e sogno, tra incubo e sofferenza carnale. è fuggito dall’oltretomba o è stato inviato come messaggero all’umanità ? Egli apre con le mani uno spiraglio nello spazio, si affaccia dall’altra parte e sembra volerci condurre in un’altra dimensione, dove ci mostrerà la tragedia della vita di un uomo. Alla fine della rappresentazione, richiuderà quel varco e lascerà il corpo dell’uomo esausto ed inerte a terra. è come se fosse uno spirito soprannaturale, che si incarna per quasi un’ora in un uomo recluso in una cella: fa parlare quella sofferenza umana, fatta di perversione, di cattiveria e di destino inevitabile. E l’uomo racconta, ma non è lui che parla: è animato da dentro da una forza superiore, che vuole mostrarci l’orlo del precipizio.
All’improvviso, ci siamo trovati in una cella di un manicomio o di un carcere, una cella d’isolamento, in cui il "corpo d’attore" di Massimiliano Carrisi rotola, deflagra e si ricompone in continuazione, nei limiti di uno spazio molto ristretto.
In un vibrante crescendo di follia, l’attore rivive alcuni tra i più straordinari racconti del terrore di Edgar Allan Poe, da "Il demone della perversità " a "William Wilson", da "Il cuore rivelatore" a "Morella", fino a "Il pozzo e il pendolo", in un’unica maratona di ossessioni distruttive, giochi di specchi e rimandi, straordinariamente sottolineati da variazioni del tono di voce e della postura del corpo.
Nelle sue note di regia, Carrisi scrive che "lo spettacolo nasce dalla voglia di trasferire il mondo emotivo e letterario di Poe. Iniziato il lavoro di riscrittura scenica, mi sono reso conto di trovare delle possibilità d’attore incredibili. La parola dello scrittore ha nella sua struttura, nella sua sonorità , una forza travolgente".
Carrisi setaccia a fondo Poe e ne estrae il mondo di nevrosi, ossessioni, allucinazioni, che contraddistinguono molti dei suoi personaggi.
Il regista-attore afferma che il riferimento principale del proprio lavoro di attore è il teatro della crudeltà di Artaud. In effetti, il lavoro sui testi di Poe, sul proprio corpo d’attore e la riflessione sulla condizione umana sofferente nella follia rimandano direttamente alla lezione di Artaud. La ricerca e la sperimentazione presentata da Carrisi riprendono nel senso più autentico la "crudeltà " artaudiana.
Artaud scriveva nel suo famoso "Il teatro e il suo doppio" che "Questa Crudeltà non è fatta nè di sadismo, nè di sangue, almeno non in modo esclusivo. Io non coltivo sistematicamente l’orrore. La parola -crudeltà – deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce.
Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto, che cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta."
In altre parole, crudeltà significa andare al fondo delle cose, cercare la verita: Artaud diceva che "non si ha crudeltà senza coscienza".
Anche Artaud si confrontò con Edgar Allan Poe, quando si cimentò nella traduzione letteraria. Era il momento dell’internamento manicomiale di Artaud, in cui, per "resistere" al Potere che lo aveva segregato ingiustamente, cerco l’appiglio e l’approdo in alcuni autori ingiustamente emarginati.
Poe scrisse in una lettera del 1848, un anno prima della sua morte: "Sei anni fa, a mia moglie, che io amavo come nessun uomo ha mai amato in precedenza, si ruppe una vena, mentre cantava. Disperammo per la sua vita. Le dissi addio per sempre, sopportando tutte le agonie della sua morte. Si riprese parzialmente e io di nuovo sperai. Dopo un anno la vena si ruppe di nuovo: io attraversai esattamente lo stesso dramma? Ma la mia costituzione è sensibile, il mio nervosismo molto al di là del normale. Diventai pazzo, con lunghi intervalli di lucidità . Durante queste crisi di completa incoscienza bevevo, Dio solo sa quanto spesso e quanto. Ovviamente, i miei nemici fecero risalire la mia pazzia all’alcol, anzichè l’alcol alla mia pazzia".
Non a caso, da lì a poco, proprio nel momento in cui la febbre cerebrale di cui soffriva diveniva più intollerabile, dedicò il poema in prosa "Eureka" "a coloro che sentono, più che non a coloro che pensano".
Massimiliano Carrisi giunge a tutto ciò, nel suo percorso di ricerca e sperimentazione attorno ad Edgar Allan Poe, nella metodologia della crudeltà di Artaud: il suo spettacolo va fruito a pelle, piuttosto che di testa.
Edgar Allan Poe è in realtà uno spirito di collera, di rivendicazione e furore, un sobillatore della percezione e del linguaggio. Carrisi si è reso conto che leggere l’opera di un poeta è prima di tutto leggere attraverso: ecco lo spirito sovrannaturale che ci è apparso in una calda notte d’estate e si è intrufolato dentro un corpo d’attore.
La ricerca di Carrisi pone al centro la nozione antropologica di alterità , individuando nel confronto con l’altro il nucleo esistenziale ed artistico del percorso stesso.
Il personaggio "indefinito" interpretato sulla scena da Carrisi si confronta e si scontra per tutta la sua vita con l’"altro", che diviene scopo e obiettivo del suo esistere. L’"altro" è incarnato anche da quel potere che vorrebbe annullare le diversità , quel potere che cerca di distruggerlo nella sua unica ed inimitabile diversità .
In tal modo, Carrisi penetra dall’altra parte, nei territori del doppio, affronta il rischio della perdita, del crollo, lo sprofondamento nella notte della follia. Ma il percorso si trasforma invece in un passaggio, si rivela l’esplorazione dell’ignoto in sè, per un’emersione finalmente rinnovata, la neogenesi.
Ed infine ci mostra che la follia non è necessariamente un crollo, può essere anche uno squarcio: può essere liberazione e rinnovamento così come schiavitù e morte esistenziale.
Nel parlare di omicidi efferati ed immotivati, l’uomo vestito di bianco, nel momento in cui si sofferma sulle proprie vittime, scopre l’immagine di se stesso, il doppio. Solo quando ha eliminato quello che appariva un perturbante, scopre la mancanza e l’assenza. Ciò lo porta a ricercare nuove immagini di sè da rifiutare e da recuperare dopo averle mandate in frantumi. La sua può essere una scelta, la scelta di tuffarsi "sull’orlo del precipizio, affacciarsi su di esso e venire colti da una vertigine, dal fascino del male e del proibito", parola dell’uomo vestito di bianco (Wilson) e resta soltanto allo spettatore credergli o no.
Per l’uomo-imprigionato, il palcoscenico teatrale è l’occasione di rinascere, altro e se stesso,soggetto di una storia mitica innervata alle pulsazioni della vita. Il palcoscenico è "crudele", perché vi si espone la messa in scena della riconquista di sè in una nuova espressione corporea di forte vocalità , il rifiuto di tacere, la seconda nascita.
Massimiliano Carrisi, un attore tecnicamente iperdotato, ma sopraffatto dalla solitudine. Mostra talora l’angoscia di un attore senza regista e l’ansia di mettere in scena tutte le qualità di cui è dotato, fino a compiere straordinarie capriole nel commiato dal pubblico.
Il lavoro di ricerca svolto sui testi di Edgar Allan Poe è così profondo, "crudele" e straziante che è quasi impossibile che la stessa persona possa essere contemporaneamente "autore", regista ed attore.
Lo spettacolo può crescere ulteriormente e giungere a completa maturazione, almeno con l’affiancamento di un qualificato aiuto-regista.
Carrisi ci ha comunque trasportato in un universo quasi sconosciuto e ci ha piacevolmente intrattenuti fino a notte, "costringendoci" a fare i conti con quella parte di noi stessi più vergognosa, più proibita, più degenerata; quella parte che gestiamo socialmente e che nei momenti difficili può deflagrare in maniera drammatica. Il suo è uno sguardo sulla diversità , che, senza moralismi e giudizi, rappresenta il nero e il bianco, il buono e il cattivo di ciascuno di noi. Ci costringe a non emettere giudizi definitivi sugli altri, prima di aver provato a mettersi negli stessi panni.
Carrisi annota che Poe prefigura "l’uomo moderno e il problema dell’identità , il delirio d’onnipotenza, fobie, ossessioni, nelle quali ci possiamo trovare riferimenti alla nostra quotidianità , ma anche avvertire quel violento assurdo, quel delirio paranoico che ha crudelmente contraddistinto il nostro secolo: ad esempio il nazismo".
Il teatro diviene allora momento di riflessione personale e collettiva sul divenire della società moderna: in tal senso, Carrisi ci provoca e ci propone con il suo spettacolo un nuovo modello di "teatro civile".