Introduzione
La psicomotricità ha conosciuto negli ultimi anni un notevole sviluppo sia in ambito educativo che terapeutico. (R. Di Sauro 1989)
Il limite forse che la prassi psicomotoria ha incontrato e tutt’ora incontra è quello di stabilire al suo interno disciplinare un costrutto scientifico sia dal punto di vista teorico-metodologico che nella strutturazione di un fondamento di una teoria della tecnica.
Infatti la psicomotricità si afferma soprattutto come prassi, almeno negli anni precedenti, a discapito di una teoria scientifica che la sostiene in modo sicuro.(Camerini 1990)
Ma d’altra parte non può essere che così visto le modalità o meglio l’agire dello psicomotricista nella relazione con il soggetto, rivolgendosi sempre di più alla globalità dell’essere che al problema che l’individuo presenta.
Inevitabilmente la pratica psicomotoria diventa un crocevia interdisciplinare: tra pedagogia, psicologia, psicopatologia, neuropsichiatria, psicoterapia ect.
Ciò crea di fatto una duplice difficoltà : da una parte l’appartenenza ad una disciplina scientifica con un suo preciso statuto epistemologico e clinico, dall’altra la formazione dello psicomotricista e delle competenze che egli può assumere.
Ci si può chiedere per es. quali aspetti formativi e magari di personalità deve avere uno psicomotricista che si inserisce in un sistema "curativo".
Ed ancora, quali fattori personali come: maturità , disponibilità , onestà ect. deve avere lo psicomotricista e come queste "qualità " vengano favorite o approfondite.
Ne emerge implicitamente l’utilità o l’imprescindibilità secondo chi scrive di una qualche forma di "controllo" che il terapeuta della psicomotricità riceve, per es. nella supervisione, ed ancor prima nella possibilità di una forma personale di "terapia".
Per essere chiari non intendo semplicemente la scoperta dei propri vissuti corporei che viene generalmente affrontata nella formazione dello psicomotricista negli stages di formazione, ma ad una vera e propria "terapia personale".
Credo infatti che non sia possibile effettuare una terapia psicomotoria, a maggior ragione nei trattamenti di situazioni particolarmente gravi, senza tenere in considerazione due aspetti intrinsecamente connessi e cioè: i contenuti traslativi e controtraslativi che inevitabilmente sono presenti in ogni contesto terapeutico.
In questo senso il modello di terapia psicomotoria che propongo nell’affrontare, seppur con molte cautele, le problematiche di soggetti con handicap fisici e psichici, fa riferimento alla teoria psicoanalitica ed in particolare al modello delle "relazioni oggettuali".
Ciò che conferma la scelta teorica e metodologica delle "relazioni oggettuali" è la soggettivazione (vissuto) dell’esperienza corporea del terapeuta e del paziente nel setting terapeutico: la sala di psicomotricità , che prende in considerazione, necessariamente un "campo bi-personale".
Un campo, cioè, dove l’analisi della realtà del paziente si aggiunge alla verifica dell’interazione che fra i due viene a costituirsi nel setting e nel processo terapeutico. (R. Di Sauro 1995)
Un campo, quindi, dove la costruzione della realtà del soggetto si intreccia inevitabilmente con quella del terapeuta e dove la dimensione dell’uno non può che interagire con quella dell’altro.
La terapia psicomotoria psicodinamica: strategie e interventi
"Il materiale clinico nell’ambito del quale viene esercitata una funzione terapeutica è sempre l’espressione di stati emozionali"(Carli,1987).
Questa ipotesi sembra essere particolarmente importante e merita quindi di essere sottolineata, in un ambito quale quello della strategia psicomotoria in cui spesso si rischia di essere fuorviati dal luogo comune del considerare la psicomotricità semplicisticamente una "prassi" trascurando la matrice teorica e la funzione terapeutica che la formano.(R.Di Sauro 1989)
D’altra parte, chiunque abbia avuto occasione di lavorare con soggetti affetti dalle più svariate condizioni psicopatologiche, nel rispetto delle proprie competenze professionali, ha sperimentato (è proprio il caso di dire sulla propria pelle!), l’imprescindibilità per un’adeguata e soprattutto professionale gestione del rapporto, dell’analisi e dell’elaborazione dei "vissuti" evocati dallo stesso.
Per meglio individuare la specificità di tale rapporto che senza dubbio si realizza in un "processo terapeutico" è forse utile fare riferimento alle basi teoriche su cui la tecnica si esplicita.
Anche in questo caso come per ogni processo terapeutico è opportuno fare riferimento, per chiarezza espositiva a tre momenti importanti del processo clinico:
– alla fase iniziale;
– alla fase intermedia;
– e alla fase finale.
Questi momenti, in un’ottica bidimensionale, possono coincidere:
-da una parte con la teorizzazione psicoanalitica dello sviluppo individuale proposto da Winnicott (1963), cioè con le tre fasi della:
dipendenza assoluta,
dipendenza relativa,
indipendenza;
– dall’altra in riferimento cioè alla dimensione per così dire "riabilitativa" e "ricostruttiva" del rapporto operatore-paziente, con i seguenti progressivi passaggi:
evitamento delle situazioni di "pericolo",
dipendenza dagli aspetti rassicuranti di questo particolare tipo di "controllo", "alleanza" e "setting" terapeutico,
accettazione e ricerca di nuove e più intense fonti di stimolazione non protetta.
È superfluo sottolineare l’inscindibilità di queste due dimensioni che come vedremo in seguito vengono distinte solo a livello teorico.
Il processo terapeutico comprende quindi tre fasi e due dimensioni:
FASI DIMENSIONE PSICOANALITICA DIMENSIONE RIABILITATIVA
INIZIALE: Dipendenza assoluta Evitamento delle condizioni di pericolo
INTERMEDIA: Dipendenza relativa Dipendenza dalla condizione protetta
FINALE: Indipendenza Fonti di stimolazione non protetta
Possiamo notare come, durante la prima fase, la corrispondenza tra la dimensione psicoanalitica e la dimensione riabilitativa sia particolarmente evidente nel rapporto con soggetti psicotici, dove la "dipendenza assoluta" garantisce sia la funzione di regolazione del livello di eccitamento e tensione che la difesa dagli stimoli interni ed esterni che potrebbero essere vissuti dal paziente come ulteriormente disturbanti; mentre sul versante riabilitativo tutto ciò che si traduce in una relazione paziente-terapeuta caratterizzata da un "dialogo tonico sincronico" e, a livello di setting, in una sala di psicomotricità in cui, ad esempio, non vi siano stimolazioni acustiche invasive.
In riferimento al secondo momento, in cui compare cioè la "dipendenza relativa" da parte del soggetto dagli aspetti rassicuranti di questo tipo di "contratto", "alleanza" e "setting" terapeutico, possiamo notare come essa sia indispensabile alla realizzazione intrapsichica di uno spazio di attesa: "la sala di psicomotricità è un’area nella quale sono permesse molte cose, ma questa permissività può assumere significato unicamente in un ordine rassicurante. Il soggetto che entra nella sala non sopporta il caos, il disordine: vuole ritrovare le cose al loro posto. L’ordine gli permette di inserirsi in un sistema di attesa. La sala è molto ricca di emozioni nella sua rappresentazione: bisogna che la visione globale corrisponda all’attesa" (Empinet, 1986).
La "dipendenza relativa" ed il suo omologo riabilitativo (la dipendenza da una condizione protetta) si esprime, a livello di setting, nella formulazione ed esplicitazioni di regole: il soggetto, prima di entrare nella sala di psicomotricità , viene invitato a ripetere (e quindi a fare proprie) le norme che regolano la relazione ed il setting (ad es. "non ci si fa male tra noi, non si rompe il materiale, la lotta per finta si fa sul tappeto, etc…").
Durante il terzo momento, la "fase finale", che abbiamo definito come una fase di ricerca, di stimolazione e di novità , il paziente è in grado di sentirsi libero nella propria espressione tonica: per esempio non ha più paura della propria aggressività e dell’aggressività dell’altro e soprattutto è disposto a "giocare" con l’altro.
La relazione paziente-terapeuta
La parola chiave della fase iniziale dell?intero processo terapeutico, nei due aspetti di "dipendenza assoluta" ed "evitamento del pericolo" è quindi quella di "contenimento" prima ancora che di "holding": dove la fantasia che sottende tale contatto è quella di un involucro costituito da una persona (lo psicomotricista) o una situazione (il setting) con cui il soggetto si sente tutt’uno e che pertanto offre la sensazione di un limite.
Nel processo di contenimento che può essere definito "una modalità " attraverso cui sono tenute insieme parti o frammenti, "un processo attraverso cui prende forma e consistenza qualcosa precedentemente del tutto informe" (Neri, 1987) possiamo inoltre individuare la fantasia di essere messi al riparo dal rischio di frammentazione e dispersione (il "breakdown" di Winnicott) attraverso la costruzione di un aggregato.
Perciò nei primi momenti di questa fase "gioca" un ruolo essenziale la presenza fisica dell’operatore: solo con l’evolvere della vicenda analitica prenderà forma un’autentica "holding situation".
Se, e nel momento in cui, il paziente acquisterà fiducia nella capacità dello psicomotricista di "tenerlo" tra le proprie braccia, sarà possibile per quest’ultimo sincronizzarsi e aggiustarsi adeguatamente all’espressione del paziente. è evidente come tutto ciò sia in stretta connessione con la capacità d’empatia e d’ascolto del terapeuta. A questo punto è bene sottolineare come il concetto di "contenimento" non coincide affatto con un "contenimento fusionale" cioè con la completa fusionalità ed indeterminatezza fra sè e l’altro. Al contrario l’empatia e la capacità di ascolto, che può essere acquisita con un serio training di formazione, implica da parte dell’operatore "sostanzialmente un riconoscere all’altro – l’utente – una dimensione esterna, fisica e temporale, ma ancor prima mentale, interna, per narrare la propria storia, e ancora riconoscere a se stesso un’analoga dimensione per accogliere le comunicazioni che dall’altra parte provengono, per seguirlo nel suo tentativo di conoscere e farsi riconoscere" (Grasso, 1987).
Fondamentale è quindi la capacità di empatia, ma nella pratica psicomotoria lo è ancora più "l’empatia tonica". "È attraverso il proprio corpo, attraverso le interpretazioni che il terapeuta fa su di sè realtà del soggetto" (Di Sauro, 1989).
L’empatia tonica è molto simile alla "preoccupazione materna primaria" di cui parla Winnicott (1963), cioè di quella condizione di equilibrata "apprensione" da parte della madre nei confronti del proprio bambino, che le consente di salvaguardare quest’ultimo dall’"annegare" nei propri disagi senza però anticipare e quindi "saturare" prematuramente i suoi bisogni.
Il terapeuta che risponde adeguatamente ai bisogni del paziente (rivissuti nel transfert) subisce (grazie alla propria empatia tonica e all’elaborazione del controtransfert) delle modificazioni di orientamento molto simili a quelle presentate dalla madre nei confronti del figlio, precedentemente descritte come "apprensione materna primaria".
Ciò che rende professionale l’intervento del terapeuta rispetto a quello della madre, è la necessità di essere consapevole della sensibilità che si sviluppa in lui in risposta alla dipendenza del paziente. D’altra parte questa stessa sensibilità alimenta la fantasia d’interazione tra terapeuta e paziente sulla base delle reciproche aspettative.
Sono infatti due i principi cui bisogna tener conto in questo tipo di percorso terapeutico la cui finalità è di condurre dalla "dipendenza, attraverso l’interazione, all’indipendenza":
A) la funzione di "holding" svolta dal terapeuta, che include necessariamente la vita fantasmatica del terapeuta stesso;
B) la funzione di "maternage" di cui il paziente investe il terapeuta, contribuendo a conferirgli tale statuto.
L’importante è che la fantasia di interazione non sia di natura onnipotente, è importante cioè che, non si instauri una condizione fusionale. Il rischio di fusionalità diventa un elemento difficilmente controllabile in un setting eccessivamente regressivo: pertanto nella sala di psicomotricità la regressione può sicuramente realizzarsi ma non viene mai attivamente favorita dal terapeuta.
Alcune considerazioni tecniche sulla sala di psicomotricità
Dal punto di vista più specificatamente operativo e tecnico vorrei ora illustrare brevemente le caratteristiche del setting, sia dal punto di vista del soggetto che da quello dell’operatore.
A tale proposito si può dire con Aucouturier (1985) che la sala di psicomotricità è per il soggetto:
– luogo di piacere senso-motorio;
– luogo di espressività psicomotoria;
– luogo di comunicazione;
– luogo di desiderio.
È, allo stesso tempo, per l’operatore:
– luogo di scoperte eccezionali;
– luogo di interventi;
– luogo con i propri rituali.
Nella ricerca del "piacere senso-motorio" il soggetto utilizza lo spazio per dondolarsi, rotolarsi, correre, saltare, costruire, distruggere, ecc. La sala è per lui il luogo in cui viene profondamente accettata e riconosciuta la sua espressività psicomotoria e, di conseguenza, la sua persona. è il luogo dove può esprimersi la sua realtà fantasmatica e simbolica. Nella sala può usare i codici della comunicazione verbale come quelli della comunicazione non verbale. Può parlare nella sicurezza di essere ascoltato. Come abbiamo detto, la sala è anche il luogo di "desiderio" per il paziente. Egli attende il giorno in cui ci sarà la nuova seduta, e spesso riprende l’attività dallo stesso punto in cui l’aveva lasciata la settimana precedente, come se fosse passato un solo giorno.
Per l’operatore la sala è il luogo di scoperte, in quanto egli può rilevare a partire dall’espressività del soggetto tutte le sue potenzialità e tutti i suoi limiti. è il luogo d’intervento, in quanto egli cerca di far evolvere il paziente in tutte le sue produzioni (fantasmatiche, aggressive, cognitive, simboliche) proponendo, al momento opportuno, delle modificazioni nelle sue attività per consentirgli di modularle e di liberarle gradualmente dagli aspetti pulsionali e fantasmatici che le caratterizzano. Infine la sala è luogo di rituali, in quanto vengono proposte delle regole che hanno la funzione di creare, nel paziente, dei punti fermi che lo rassicurino: contrariamente, la non direttività diverrebbe caos e sarebbe, di conseguenza, non solo improduttiva, ma anche dannosa. Abbiamo trovato utile, per esempio, dire e far dire, prima di entrare in sala, che non ci si fa male, non si rompe il materiale, alla fine della seduta tutto va riordinato, ecc.
Segnalati questi che sono altrettanti punti fermi nell’impostazione del lavoro terapeutico vorrei infine riportare un possibile schema che in altri termini esemplifica le riflessioni teoriche su esposte.