Los Angeles – è stato un momento magico, dice Greta Scacchi, la grande attrice figlia di una ballerina inglese e di un pittore italiano che è tornata a girare un film in Italia per la prima volta da 15 anni, spiegando i motivi che l’hanno spinta ad accettare, fra le decine di offerte che riceve in continuazione, il ruolo di protagonista nel film "Il ronzio delle mosche" di Dario D’Ambrosi, l’attore milanese fondatore del cosiddetto "teatro patologico", in uscita in questi giorni sugli schermi italiani.
Il film, scritto da D’Ambrosi insieme ad Armando Pettorano e prodotto da Gianfranco Piccioli dell’Hera International grazie a fondi del Ministero dei Beni Culturali, racconta, in un periodo che la Scacchi suggerisce "surreale" più che futuristico, la storia di tre malati di mente, gli ultimi con i geni della pazzia ancora sopravvissuti su una terra ristrutturata dalla biogenetica. I tre vengono rinchiusi in un luogo segreto e diventano cavie di un folle esperimento messo in atto da una altrettanto folle èquipe di medici e scienziati: questi intendono studiarli per capire se sia possibile grazie a loro far germinare nuovamente la pazzia ed estenderla ad altri. Il tutto per ripristinare quella linea di demarcazione che divide una mente sana da una malata, combattere la noia e la depressione che si sta diffondendo sulla terra, reinserire il sentimento della paura ma anche la gioia e la spensieratezza infantile.
Greta Scacchi è la dottoressa Natalia, quella che infatti, nelle parole dell’attrice di film come "The Player" e "Jefferson in Paris", "è spesso il personaggio di D’Ambrosi, il cui teatro nel passato ha non solo voluto analizzare il problema delle patologie mentali e della follia, ma dello studio della recitazione come mezzo per affrontare la pazzia usando quelli che lui affettuosamente chiama i suoi ‘mattacchioni’ nelle sue recite teatrali".
Accanto alla Scacchi lavorano gli attori Cosimo Cinieri, Marco Baliani, Giorgio Colangeli, Lorenzo Alessandri, Raffaele Vannoli e la miss Italia 2000 Deny Mendez. Ha un piccolo ruolo anche l’ottantenne Ellen Stewart, fondatrice del noto teatro sperimentale La MaMa di New York, laboratorio artistico d’avanguardia dove si sono incontrati e confrontati per anni artisti quali Andy Warhol, Robert De Niro, Lou Reed e Pina Bausch, e dove D’Ambrosi aveva esordito negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80 con il monologo "Tutti non ci sono".
Pur non avendo avuto nel passato un particolare interesse per la malattia mentale, Greta Scacchi è affascinata dal modo in cui Dario D’Ambrosi affronta il suo lavoro: "Dario affronta questo soggetto più per affetto che per motivi scientifici," continua l’attrice. "Non si può fare a meno di venir trascinati dalla sua passione e dal suo rispetto per il progetto e per la malattia mentale, perché si capisce che è uno che queste cose le ha vissute profondamente, non è uno che giudica o rimane all’esterno". "Eppure – aggiunge – la sua sceneggiatura all’inizio mi aveva lasciata perplessa, non capivo bene cosa stesse cercando di fare. Ho accettato perché è venuto a trovarmi in Toscana, dove ero in vacanza, e mi ha convinta con le sue parole, con la sua passione: ho sentito fin dal nostro primo incontro che dietro l’apparenza confusa di un copione c’era una persona con le idee chiare e in più assolutamente originali, non convenzionali, che avrebbe fatto un film se non altro molto diverso da qualsiasi altra cosa che io abbia fatto o visto. E poi proveniendo io dal teatro appprezzo molto uno che ha lavorato tanto in teatro, perché per un attore il teatro è uno spazio sacro, in confronto al cinema in generale, perché nel cinema ci sono anche registi che non capiscono affatto cosa sia il lavoro dell’attore, di cosa hanno bisogno, le loro esigenze, la loro preparazione."
La Scacchi ricorda come le sue incertezze siano continuate fino all’ultimo momento: "Non ero ancora sicura del perché avessi accettato di girare questo film fino a quando, pochi giorni prima dell’inizio delle riprese, sono andata a trovare Dario mentre girava nell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà , dove ancora esiste il famigerato Padiglione 22, con le sue celle per i cosiddetti matti, tenuti come in prigione. Dario mi ha portata in un grande stanzone, dove c’erano, accovacciati a terra, negli angoli, in varie pose, una ventina di malati di mente. Erano come assenti, persi nella loro realtà , ma nell’istante in cui Dario è entrato gli si sono fatti tutti intorno, abbracciandolo, parlandogli, chiedendogli quando avrebbero fatto il loro prossimo spettacolo con lui: erano improvvisamente vivi, coerenti, persone come me e lei: è lì che ho capito quello che Dario sta cercando di fare, il suo sforzo di farci capire come quella linea di demarcazione fra il mondo dei "matti" e quello dei "sani" sia così tenue e così facile da attraversare. è lì che ho capito che in questa sceneggiatura io sono Dario, a me spetta essere il tramite fra la follia e l’altro mondo".