L’ONORE DELLA CAPODARCO

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La Capodarco nella bufera. E’ successo, e ne siamo rimasti tutti colpiti. Tutti noi che, in posizioni diverse ma con la stessa consapevolezza e la stessa passione, siamo impegnati in questa grande famiglia della quale la Capodarco è la primogenita: come sappiamo bene per averne festeggiato, l’anno scorso di questi tempi, i trent’anni di vita. Lo abbiamo dimostrato, questo nostro sentirci colpiti, offesi, indignati, il 29 novembre, a Roma, manifestando per l’intera giornata davanti alla sede del Consiglio Regionale del Lazio. Con la nostra presenza, i nostri cartelli e i nostri slogan coloriti, con la rivendicazione forte del nostro buon diritto di lavoratori e di impresa sociale.
La Capodarco ha rischiato e rischia di restare vittima di giochi che passano le mille miglia al di sopra della sua testa, che si svolgono in stanze segrete, con giocatori che non osano dichiararsi e venire alla luce. Con accuse rivolte alla cooperativa per colpire altri, e con accuse rivolte ad altri per infangare l’immagine e la stima che la cooperativa si è conquistata, presso le istituzioni e i cittadini, nei lunghi anni della sua attività. In particolare in questi anni 2000 in cui ha fatto il salto da piccolo e volonteroso gruppo di produzione e di servizi a grande impresa capace di inventare, progettare, realizzare investendovi lavoro e risorse a livello adeguato, gestire in modo efficiente e impeccabile, una macchina complessa e difficile come il ReCup, il centro unificato di prenotazione delle prestazioni sanitarie della Regione Lazio. Un servizio unico in Italia, che già altre Regioni, dalla Marche al Piemonte (non si offenda nessuno se notiamo che non si tratta del Molise o della Calabria), stanno cercando di imitare. E per farlo si rivolgono alla Capodarco perché dia loro un aiuto, trasmetta loro un po’ della sua esperienza e, come si suol dire, del suo know-how.

Insomma un po’ di quel “saper fare” che la cooperativa si è venuta costruendo col concorso di tutti i suoi soci, da chi dirige perché eletto dalla base a chi svolge un semplice compito esecutivo, dai fondatori ancora in servizio, generosi nel loro spendersi quotidiano, all’ultimo arrivato, che siede al suo desk preparato a rispondere a ogni richiesta dell’utenza dopo i mesi della formazione e del noviziato, affiancato da lavoratori più esperti. Col concorso (forse a qualcuno bisogna ancora ricordarlo) dei suoi soci lavoratori con disabilità o disagio, inseriti con gli altri alla pari, lavorando fianco a fianco, a tutti i livelli, aiutati ove occorra, maestri di vita per i “normali”, consapevoli della dignità che dà loro l’essere soci e lavoratori insieme, membri responsabili di una comunità solidale e a un tempo rigorosamente produttiva. Che oggi sono oltre 450 sui 1200 soci lavoratori della Capodarco.

La Capodarco dunque ha saputo mantenere negli anni, anche quando ha fatto il salto verso la grande impresa, il proprio carattere di cooperativa sociale, il proprio spirito solidale, il proprio fine primario e irrinunciabile, quello di affermare, innanzi tutto attraverso l’inserimento al lavoro, la dignità umana e civile di quanti versano in difficoltà. Anzi ha ulteriormente esaltato questa sua “missione”, questo ruolo riconosciutole dalla legge e riaffermato ogni giorno nei fatti, proprio con l’immettere un numero così notevole di persone in difficoltà, non più in una piccola comunità familiare dedita a un modesto artigianato, ma in un’impresa grande e moderna, perfettamente inserita nella difficile competizione della “società dei servizi” in cui oggi viviamo.

Ecco, sospendendo la gara d’appalto per l’assegnazione in convenzione del servizio ReCup, e in parallelo scatenando una campagna televisiva e di stampa contro la Capodarco, qualcuno, per fini non dichiarati ma fin troppo facili da individuare, ha voluto mettere in discussione tutto ciò: anzi passarci sopra come un rullo compressore. Ha voluto, insomma, sfrattare la Capodarco dalla posizione che essa (per merito e non per oscuri legami, raccomandazioni o bustarelle) si è conquistata nei suoi lunghi anni di vita onorata, di cui tutti noi siamo orgogliosi. E con noi tutti coloro che, in Italia, si sentono parte del movimento di emancipazione del lavoro e della persona. La posizione non certo di chi gode di un qualche indebito privilegio, ma di chi ha il diritto di partecipare alla pari, secondo le norme comunemente riconosciute, a una competizione onesta, dal cui risultato possa venire un vantaggio all’intera comunità civile.

Si è detto che quella per il ReCup sarebbe una gara tagliata su misura per la Capodarco, quando invece le cifre parlano chiaro: bastava per parteciparvi avere 300 lavoratori stabili di cui 100 con disabilità: uno scarso quarto della Capodarco. E si sono messe in giro altre infondate panzane di questo tipo. Qualcuno ha detto di sapere, per vie misteriose e non spiegate, che la Capodarco si sarebbe presentata sola alla gara, quindi l’avrebbe certamente vinta: come se fosse un demerito esprimere una capacità di gestione, per un servizio di quella portata, che non ha rivali in Italia, e a quanto pare, trattandosi di un bando europeo, neanche nella UE.

Ovvero come se fosse una colpa invece che un merito, da parte della Regione, l’aver ottemperato a una disposizione europea, recepita dalla legge italiana, che prevede e favorisce l’indizione da parte delle amministrazioni pubbliche di gare d’appalto riservate a “laboratori protetti”, vale a dire ad aziende che abbiano fra i propri addetti non meno di una certa quota di persone con disabilità: “laboratori” che in Italia hanno la principale e più autentica espressione nelle cooperative sociali integrate, cui appartiene la Capodarco. Questo è appunto il tipo di gara europea indetta per il ReCup, cui la Capodarco ha concorso. Chi attacca con qualunque pretesto la gara, e con essa la Capodarco, vorrebbe che si rinunciasse al principio, sancito dalla UE, che prevede le gare riservate come compenso allo svantaggio competitivo delle persone con disabilità e delle aziende in cui esse sono impiegate? Lo si dica ad alta voce, se se ne ha il coraggio!

Ma c’è di più e di peggio. Chi ha ascoltato e letto la fiumana di affermazioni bugiarde sparse a piene mani, in queste settimane, a proposito della Capodarco, ha potuto constatare come gli schizzi di fango abbiano teso a investire, con la Capodarco, l’intera esperienza della cooperazione sociale, e in genere dell’economia solidale e partecipativa, che tanto è cresciuta nel nostro paese nel corso degli ultimi decenni. Qualcuno si è spinto a parlare di “smascheramento” di una realtà sostanzialmente truffaldina, dietro la quale si celerebbero interessi oscuri e operazioni poco pulite.

Insomma, per dirla in breve, in questa campagna sguaiata, sembrano essersi saldati l’ideologia passatista di quelli che pensano che tutto il sociale debba essere gestito direttamente dalla mano pubblica (con tanti saluti sia all’efficienza sia alla soddisfazione capillare dei cittadini-utenti) e l’interesse rampante di quanti non vedono l’ora di avere campo libero per spartirsi privatamente ricche torte di denaro pubblico. Una volta si parlava di alleanza fra trono e altare. Qui si assiste all’alleanza fra neostatalismo “di sinistra” e speculazione economica senza colore: tanto i quattrini “non hanno odore”, come diceva l’imperatore Vespasiano a chi gli rimproverava di ricavare soldi per l’erario dai gabinetti pubblici.

La Capodarco ha superato, nel corso della sua ormai lunga esistenza, tanti ostacoli e tante difficoltà. Siamo sicuri che riuscirà a superare anche questa fase oscura, in cui è oggetto di attacchi senza fondamento e senza pudore. Ne siamo sicuri anche perché la sua battaglia non la combatte solo a difesa di un interesse aziendale più che legittimo contro chi vorrebbe perpetrare uno scippo ai suoi danni. Ma la combatte anche a difesa di un principio, un ideale, un interesse comune che, se la Capodarco dovesse essere sconfitta, ne sarebbe leso in modo grave, e ne verrebbe un danno non da poco all’intera prospettiva di sviluppo di una democrazia reale e condivisa nel nostro Paese.

Fonte: www.sociale.it

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