FORMULARIO Progetto SWOD
Formulario per la stesura delle Buone Prassi sul tema della sessualità delle persone disabili
Modello A: Buone Prassi relative ai servizi e attività svolte in Centri e/o Istituzioni
Workshop teorico-pratico “Handicap & Sessualità”
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(servizi rivolti a professionisti, servizi rivolti direttamente ai beneficiari, corsi, studi ,ecc.)
Consiste in un week-end che, periodicamente, viene rivolto ad operatori sociali, familiari e persone con disabilità fisica e/o psichica
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L’iniziativa è stata promossa a partire dal 1996, con cadenza periodica annuale o biennale, a cura dell’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” di Roma e del CIP – Centro Italiano Psicomotricità di Latina (con la collaborazione del Consorzio COIN di Roma e della Cooperativa Sociale Integrata TANDEM di Roma), presso luoghi emblematici o simbolici, soprattutto e preferibilmente presso sale-teatro di Parrocchie cattoliche.
Tale scelta è legata alla necessità preliminare di proporre l’attività a persone che, spesso, si mettono in contatto con le strutture organizzatrici con una richiesta pressante di risposte e l’esibizione di un bagaglio curriculare specifico. La proposta di svolgere una simile attività teorico-pratica in una Parrocchia costituisce un elemento perturbante nei partecipanti, che talora annullano l’iscrizione, ritenendo pregiudizievolmente che si tratti di attività con scarsa base scientifica.
Altresì, le organizzazioni promotrici non dispongono di spazi adatti a tale attività, che si rivolge mediamente a 100/200 partecipanti per volta.
È un’organizzazione di volontariato costituita ai sensi della Legge n. 266/91, “Legge Quadro sul Volontariato”, ed è costituita esclusivamente da volontari con e senza disabilità. Non persegue scopo di lucro.
L’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” è nata nel 1988 dall’incontro tra giovani con e senza disabilità mentali e/o disagio psichiatrico, come ipotesi di laboratorio permanente delle diversità sul territorio.
Le diversità fisiche, psichiche, sensoriali, culturali, politiche, religiose, etniche ed economiche non sono considerate come motivo di discriminazione ed emarginazione, ma divengono occasione di scambio reciproco e crescita comune, nell’ascolto dell’altro.
I giovani con e senza disabilità dell’Associazione sono persone che cercano di vivere quotidianamente una cittadinanza partecipata, individuando i problemi del territorio e proponendo concretamente delle soluzioni di convivenza pacifica ed interculturale.
L’Associazione opera per un graduale passaggio da una mentalità diffusa che vede la persona con disabilità come oggetto di assistenza ad una cultura nuova, che riconosca il valore di ogni diversità, valorizzando la persona con disabilità come soggetto di cittadinanza attiva.
L’Associazione è costituita da volontari con e senza disabilità, è una associazione “integrata”, che non prevede una distinzione tra operatori ed utenti. I volontari con e senza disabilità propongono delle attività a favore del territorio nei settori della cultura, dell’ambiente e dell’accoglienza di persone in difficoltà (diverse dai volontari svantaggiati dell’Associazione).
Tutte le attività culturali svolte hanno inteso promuovere l’integrazione sociale e culturale di persone con disabilità, sia attraverso la sensibilizzazione sui temi dell’emarginazione e dell’intolleranza, sia attraverso l’inserimento nelle attività di persone con diverse abilità. Tali attività sono consustanziali alle attività di tempo libero, di sport e di turismo, che l’Associazione conduce fin dalla sua nascita e che sono, al tempo stesso, propedeutiche e consequenziali alle attività culturali stesse.
Organizza corsi di formazione in psicomotricità, workshop sulla psico-corporeità, seminari di studio, consulenze e supervisioni per insegnanti e operatori socio-sanitari, terapie logopediche e psicomotorie, espressione corporea e comunicazione umana, psicoterapiemotorie, riabilitazione dell’handicap.
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(fisica,cecità,sordità,malattie mentali,disturbi dell’apprendimento)
Il workshop è rivolto a operatori socio-sanitari, genitori e persone con disabilità fisica, ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento e ipovedenti. Le tipologie di disabilità descritte sono relative a quelle che caratterizzavano le persone che finora hanno partecipato all’esperienza del workshop, che comunque resta, nella sua impostazione clinica, aperto a qualsiasi tipo di disabilità.
Le persone con disabilità possono essere gli utilizzatori diretti, partecipando direttamente al workshop, in reciprocità e integrazione con i partecipanti senza disabilità.
Altresì, le persone con disabilità possono essere beneficiarie, lì dove i partecipanti senza disabilità (operatori socio-sanitari o genitori) riportino l’esperienza nella quotidianità di un rapporto di reciprocità e scambio con i propri utenti e o figli/parenti.
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Il workshop “Handicap & Sessualità” intende sollecitare una riflessione culturale e scientifica sul tema della sessualità nelle persone con disabilità sia fisica che psichica.
Tali riflessioni, si spera, interessino e coinvolgano, oltre agli stessi protagonisti in questione, anche i genitori e gli operatori sociali e sanitari. Per questo motivo, i laboratori sono di natura teorico-pratica.
Infatti, nella struttura del workshop, generalmente prevale una “corposa” relazione teorica nella prima parte ed in seguito una serie di approfondimenti esperenziali di tipo clinico-operativo.
A tale riguardo molta rilevanza è data, viste le notevoli implicazioni corporee, ai cosiddetti vissuti traslativi e controtraslativi, che qualsiasi tipo di relazione professionale e umana comporta. Per molto tempo, infatti, e non a caso, la sessualità della persona con disabilità è stata esclusa dal vissuto emotivo e relazionale, in quanto non “all’altezza” dei canoni sociali e culturali della funzione sessuale. Il sesso cioè, secondo questa visione culturale, è punibile solo in virtù di un oggetto sessuale “normale”, di conseguenza la persona con disabilità viola alcune delle aspettative, che il gruppo rivolge ai propri membri: questa violazione, presunta o reale che sia, provoca una serie di risposte, che si esprimono frequentemente attraverso punizioni o etichette. D’altro canto, di queste stesse difficoltà ne risentono genitori ed operatori nei contatti quotidiani con le persone con diversa abilità e, di conseguenza, si stabilisce una resistenza al parlarne e all’agire terapeutico.
Un workshop è un laboratorio di natura teorico-pratica. L’esperienza teorica sottolinea il concetto di sessualità al di là della pura genitalità. L’atto sessuale non deve essere inteso come uno sfogo biologico, bensì come un evento psicosomatico caratterizzato da aspetti relazionali, intrapsichici e sociali. Una delle difficoltà è la conoscenza del proprio corpo. Ulteriori ostacoli sono imposti dall’opinione pubblica che spesso ed impropriamente si interessa alla sessualità. Una frequenza che ha risvolti positivi e negativi: positivo va considerato il crescente desiderio di comprendere il fenomeno, negativa invece l’esigenza di prendere le distanze da un tema troppo coinvolgente.
Il workshop è incentrato su una situazione specifica: l’analisi della persona con disabilità come soggetto. In questo caso, è opportuno accantonare il concetto di prestazione puramente fisica per eliminare l’immagine distorta e parziale della sessualità nella persona con disabilità, che talvolta, attraverso un’esplicita richiesta sessuale, ricerca un’implicita risposta di carattere essenzialmente affettivo.
Nasce, quindi, la necessità di promuovere una valutazione qualitativa dell’esperienza sessuale e di eliminare l’idea di prestazione come dovere. La persona con disabilità, psichica o fisica che sia, è una persona come le altre. Ha desideri e bisogni di carattere sociale, emozionale ed intellettuale. Fondamentali si rivelano l’informazione, la comunicazione e la competenza in materia da parte di tutti: diretti interessati parenti, amici, operatori e terapeuti. Solo chi è molto informato e competente può comprendere fino in fondo le problematiche proprie ed altrui per produrre risposte esaustive. In tal senso, la proposta-provocazione del workshop è nello svelamento e nel superamento di certe “forme” ed etichette, quali il classificare gli individui con l’attribuzione di “handicappato” senza distinzioni di sorta, non considerando invece la “persona” articolata e complessa, con capacità e deficit, con potenzialità e limiti (più o meno superabili), irripetibile, diversa, ma non necessariamente “malata”, soggetto di diritti e doveri, che si sviluppa nel tempo con sistematici progressi e/o regressioni.
In considerazione del fatto che, spesso e volentieri, gli “addetti ai lavori” operano sul “caso clinico” e non sulla persona, nel workshop si parla di psicosessualità (e non di sessualità), per citare tutti gli aspetti di questa realtà, non solo quelli che si manifestano prevalentemente nell’ambito fisico, ma anche quelli che con essi sono strettamente collegati: le percezioni, le emozioni, gli affetti, le pulsioni, le motivazioni, i valori, etc. La non-conoscenza è fonte di disagio, paura ed insicurezza, componenti negative durante il processo di formazione del concetto di sé. L’autostima è necessaria per potersi relazionare in modo competitivo con il mondo che ci circonda in ogni ambito e situazione: per questo l’attenzione è rivolta alla comunicazione.
Non è facile interpretare e tradurre correttamente le sensazioni che si provano durante una relazione, perché molto spesso non siamo in grado di percepirle. Per questo, nel wokshop, è data molta rilevanza alle esperienze pratiche sui vissuti corporei.
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Si rileva un crescente interesse verso il tema “Handicap e sessualità”, non solo da parte di chi è direttamente coinvolto come operatore, ma anche da parte dei mezzi di comunicazione.
Le ragioni di tale interesse risiedono in cambiamenti a livello socio-culturale, come il crollo di alcuni tabù sessuali, che hanno avuto delle ripercussioni importanti nella coscienza sociale relativamente ai diritti delle persone con disabilità, diritti che devono “tendere verso il più possibile”.
Una ulteriore conseguenza di tali cambiamenti è stata la crescente domanda formativa da parte degli operatori e delle famiglie delle persone con disabilità, cui ha fatto seguito una sempre maggiore disponibilità di offerta formativa da parte degli esperti. Solo recentemente però, grazie all’evoluzione epistemologica e teorica all’interno delle discipline che si occupano dell’argomento, si è proposto un approccio alla sessualità della persona con disabilità, non più secondo una riduttiva ottica assistenzialistica, ma come possibilità di promozione e di crescita umana.
Dal punto di vista sociale si rileva però che, nonostante il cambiamento di prospettiva che ha determinato il passaggio da un atteggiamento di negazione delle esigenze sessuali di una persona in situazione di handicap ad una maggiore sensibilità verso tali esigenze, non sono state ancora superate le resistenze, che impediscono una vera accettazione della espressività sessuale della persona con disabilità. Le ragioni di tali difficoltà risiedono in una visione biologistica della sessualità, intesa come esperienza naturale/organica, in cui hanno poco spazio fattori affettvi, relazionali e sociali, e che è pertanto fruibile solo da un corpo sano e funzionale.
Questa visione rimanda inevitabilmente a due aspetti intercorrelati: la dicotomia natura/cultura e la dicotomia corpo oggetto-corpo soggetto.
La prima determina una identificazione della persona con disabilità come portatore di un complesso sintomatologico organico, conseguenza di una affezione organica prenatale, natale o postnatale e oggetto di intervento esclusivo della medicina.
La seconda dicotomia rimanda, invece, ad una visione dualista dell’uomo, che postula la separazione tra il corpo e lo spirito.
Queste dicotomie sottendono una visione della sessualità e della disabilità fortemente ancorata alla condizione biologica, che lascia poco spazio a interpretazioni più complesse e integrate, secondo le quali l’imprescindibile aspetto biologico viene arricchito di senso e di significato, solo se inserito all’interno di una prospettiva relazionale e culturale.
Sulla base di tali presupposti e assumendo la definizione di sessualità proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo cui “la salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana e della condizione dell’essere”, si ritiene più congruo parlare di psicosessualità , per evidenziare che la sessualità non si esaurisce nella genitalità, ma rappresenta una realtà multidimensionale cui appartengono, non solo l’aspetto organico, ma anche fattori affettivi, relazionali, sociali e culturali.
La sessualità possiede, dunque, una dimensione strettamente psichica e affettiva, la cui genesi e il cui sviluppo affondano le radici nella relazione primaria e precoce del bambino con i genitori, come la teoria psicoanalitica ha da tempo evidenziato. Intesa in questo senso, la psicosessualità rappresenta un importante e imprescindibile fattore di crescita e di autorealizzazione, in quanto può favorire la promozione della capacità di autoaffermazione, della immagine e valutazione di sé, delle capacità di interazione gratificante e di adattamento produttivo.
Tale concezione della sessualità induce a dubitare che abbia veramente senso parlare di “handicap e sessualità”, in quanto si ritiene che la sessualità e la possibilità di esprimerla in accordo con le proprie possibilità e i propri limiti, sia un diritto fondamentale di ogni essere umano. Questo non significa disconoscere i limiti e le difficoltà che la persona con disabilità presenta e che possono ostacolarla nella creazione e nel mantenimento di una relazione affettivo-sessuale o tipicamente genitale. Significa, invece, impegnarsi per garantire alle persone con disabilità una espressione della psicosessualità piena e soddisfacente, in accordo con quanto la natura e i limiti consentono.
Questo è un diritto fondamentale che non può essere ignorato e che pone degli interrogativi nuovi anche a livello formativo.
Il processo di formazione di operatori, familiari, insegnanti che si relazionino a persone in condizioni di handicap deve necessariamente rappresentare una occasione di trasformazione personale e professionale profonda che presuppone la ricerca della propria autenticità. Chi opera con le persone con disabilità deve, infatti, affrontare ed elaborare adeguatamente due aspetti fondamentali, ossia il rapporto con l’handicap e con la sessualità., per evitare di farsi condizionare da concezioni preconcette e fuorvianti che per lungo tempo hanno caratterizzato la relazione con i disabili.
Il percorso formativo presentato trae i propri presupposti teorici dalla concettualizzazione psicoanalitica di Erikson, che propone un modello evolutivo stadiale, in cui il paradigma di sviluppo psicosessuale freudiano viene arricchito da una complementare prospettiva sociale. L’elemento fondamentale del percorso formativo proposto, nonché elemento innovativo e originale rispetto a modelli formativi incentrati sull’informazione, è l’importanza attribuita al vissuto dell’operatore rispetto alla propria condizione psicosessuale e alla consapevolezza di tale vissuto. La relazione con l’utente si configura innanzitutto come relazione umana, anche se di tipo professionale, che si declina in un “campo bipersonale”, caratterizzato dall’interazione dei vissuti emotivi che ciascuno porta nella relazione stessa. è necessario che l’operatore sia consapevole dei fattori personali che mette all’interno della relazione, affinché essi non compromettano l’autenticità della relazione stessa e non condizionino negativamente le risposte alle richieste della persona con disabilità.
La conoscenza dei propri meccanismi e dei propri vissuti emotivi rispetto alla psicosessualità può rendere l’operatore capace di accettare e promuovere la espressività della psicosessualità della persona con disabilità, intendendola come possibilità di crescita umana e di arricchimento personale.
In questo senso, dunque, si afferma la necessità che gli operatori siano formati non tanto all’educazione sessuale di tipo informativo, quanto piuttosto all’educazione alla crescita, in cui vengano riconosciuti e promossi gli aspetti affettivo-relazionali della psicosessualità.
Il riconoscimento dei propri vissuti affettivi consentirà all’operatore di leggere adeguatamente le richieste sessuali dell’utente con disabilità, dietro alle quali si celano, il più delle volte, richieste di tipo affettivo.