Quando il muro venne giù e il mondo fu unificato nel segno di un solo pensiero, in molti dichiararono che era terminato il tempo dei nemici. Finito il nemico finita la storia, perché dove viene meno il conflitto amministrazione e gestione dell’ordine pubblico (le operazioni di "polizia internazionale") subentrano alla politica. Mai previsione si è rivelata, ad un tempo, più azzeccata e più sbagliata. Come nel caso dell’oracolo, che al soldato ansioso di conoscere il suo destino in guerra, rispondeva "ibis redibis non morieris" (letteralmente "andrai, tornerai, non morirai"), anche il detto "il nemico non c’è più" si presta infatti ad una duplice interpretazione. Nel caso del soldato è infatti sufficiente, come permette la grammatica latina, riferire quel "non" al "redibis" perché un felice augurio si trasformi in un terribile annuncio ("andrai, non tornerai, morirai"). Nel nostro caso, il venir meno del nemico ha assunto un inatteso significato. Le bombe che scoppiano ovunque (e che continueranno tranquillamente a scoppiare intorno a noi, come nel profetico film di Terry Gillian "Brazil") ne sono una triste conferma. Detto in breve e con una formula volutamente ad effetto: il nemico è sparito perché ha lasciato il terreno della fisica per trasformarsi in un’idea platonica.
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Un’idea per Platone è l’essere massimamente oggettivo, una realtà più reale di qualsiasi altra realtà per la sua immaterialità, che la sottrae per principio al ciclo delle nascite e delle morti. La sparizione del nemico è così la sua avvenuta smaterializzazione e la sua acquisita inafferrabilità. Esso diviene illocalizzabile per principio, nello stesso modo in cui l’idea platonica del cavallo non coincide con nessuno dei cavalli reali e nemmeno con la loro ipotetica somma. Posso puntare il dito ovunque sulla cartina geografica, ma, dopo la fine della politica e della storia, non troverò più "il" nemico. M’imbatterò in delle sue repliche sbiadite, in delle copie inadeguate che "partecipano" dell’idea del nemico, ma che non sono "il" nemico. E come posso bruciare tutti i cavalli senza in alcun modo togliere nulla all’essenza "cavallo", che rimane identica ed immutabile, così posso bruciare, come stia mo facendo, afgani, iracheni, palestinesi ecc. senza intaccare in nulla il mio avversario. Il nemico, quello "vero", di questa guerra al terrore ormai se la ride perché ha preso alloggio definitivamente nell’iperuranio.
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In un altro profetico film ("Canadian Bacon"), il simpatico Michael Moore, s’inventava una strampalata guerra Usa-Canada, scaturita dalla necessità per l’orco militare americano di trovare comunque un nemico con cui combattere "fisicamente". Lo spirito empirista dell’americano medio (non dei suoi massimi filosofi, inclini invece all’idealismo…) non riesce infatti ad elevarsi alle altezze della metafisica. Del resto, se si ha la forza di mantenere un poco di lucidità, appare veramente comica la sproporzione esistente tra la dismisura del nemico e le sue identificazioni sensibili (pastori afgani, immigrati disperati, abitanti dei campi-profughi). Lo stesso nome con cui convenzionalmente lo si indica testimonia soltanto dell’impotenza a localizzarlo. Il "terrorista", con il quale si afferma con patetico orgoglio di "non voler trattare", non chiede infatti nessuna "trattativa". Il suo nome è nessuno e con nessuno non si può trattare o non trattare.
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Dovendolo rappresentare, il cinema non ha altra risorsa che lo zombie. In quella celebre immagine c’è più comprensione della natura metafisica del nemico di quanta ve ne sia nelle raffinate analisi politologiche degli esperti. Lo zombie infatti è già morto, quindi non lo si può uccidere. La morte, vale a dire la minaccia estrema che si può far pendere su di un vivente, gli è del tutto indifferente. La sua potenza nasce proprio da questa sua estraneità di principio alla vita. Lo zombie, poi, si riproduce come un virus. Ai tortuosi e insicuri sentieri della persuasione e dell’argomentazione sostituisce l’immediatezza del contagio per contatto. L’epidemia è la sua retorica. Del "nemico" smaterializzato si deve allora dire ciò che certi saggi pellerossa dicevano delle immagini di giaguari dipinte in fondo alle loro grotte. Esse incutevano loro più timore dei giaguari reali della pianura perché quelli possono essere uccisi, mentre questi sono per principio inafferrabili. I giaguari reali "ci" sono, il giaguaro dipinto "non c’è". Ma ciò che non c’è, insegna Platone, è infinitamente più reale di ciò che essendoci oscilla ambiguamente tra la presenza e l’assenza