GABRIELE POLO
Se il presidente della Repubblica italiana si fa interprete dei mercanti d’armi, cosa dice la nostra sinistra? Niente; al massimo potrebbe disquisire sull’opportunità di vendere cannoni al paese cui Ciampi fa riferimento (la Cina), oppure si interroga su quali benefici potrebbero venire alle nostre imprese da un simile mercanteggio. Ma nemmeno è sfiorata dall’idea di rovesciare il paradigma presidenziale, affermando che sul commercio di morte non si costruisce alcun benessere e rilanciando l’orizzonte – almeno l’orizzonte, il "desiderio" – del disarmo, parola abbandonata dai più.
Solo così si distinguerebbe dalla destra, nella pratica di una cultura di pace, in sintonia con la nostra Costituzione, anche quando si parla di economia. Del resto buona parte della nostra sinistra non ha mai detto una parola definitiva sulla guerra, in alcune circostanze l’ha persino fatta, battezzandola umanitaria. Totale rovesciamento di senso, apripista della democrazia da esportazione che illumina al meglio la profondità della crisi della rappresentanza democratica. Quello delle armi e della guerra è "solo" un esempio, ma ci indica il problema: il venir meno di una cultura politica autonoma in ciò che noi continuiamo a chiamare, magari per comodità , sinistra. Termine nato in un "parlamento" postrivoluzionario francese e che rischia di consumarsi in emicicli postdemocratici occidentali. è il riempimento di senso – e di pratiche – di quel termine, che oggi produce ripensamenti profondi nel mondo politico e nelle società europee, soprattutto tra chi è cresciuto identificandolo con l’orizzonte socialista e oggi fa fatica persino a dirsi anticapitalista. Mentre proprio quest’ultima qualifica andrebbe messa al centro.