Mercenari, terroristi, islamici: guerra e parole

Su "Liberazione", ieri, abbiamo riferito in modo assai poco vistoso delle dichiarazioni di un giudice di Bari, a proposito dei quattro ragazzi italiani che in primavera furono rapiti dalla guerriglia irachena. Stiamo parlando di Fabrizio Quattrocchi, che fu ucciso a sangue freddo dai suoi carcerieri, di Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, i quali invece dopo una lunga trattativa furono liberati. Cosa ha detto il giudice? Ha detto che quei quattro ragazzi erano in Iraq, armati, con un compito di fiancheggiamento dell’esercito americano. Ha detto che in questo modo si «spiega se non si giustifica, l’atteggiamento dei sequestratori». E poi ha usato – sembra: ma successivamente ha negato di averlo fatto – la parola "mercenari" riferita alla loro attività professionale. Quasi tutti i giornali italiani hanno gridato la notizia in prima pagina. Qualcuno per plaudire all’iniziativa del giudice, qualcuno per sparare a palle incatenate contro la magistratura cinica e antipatriottica. Qualcuno, inopinatamente, per prendersela con Simona Pari e Simona Torretta che, francamente, con questa vicenda davvero c’entrano pochissimo.
Il "Giornale" ha titolato: «Sequestrati in Iraq e processarti in patria»; e poi, sempre in prima, ha messo un secondo titolo: «Se non ti chiami Simona sei solo un gorilla». "Libero" ha pubblicato un articolo del suo direttore, Vittorio Feltri, intitolato: «Quattrocchi ucciso una seconda volta», dando così dell’assassino al giudice di Bari. Nel suo articolo Feltri parla di Simona Torretta e di Simona Pari e poi di Quattrocchi e degli altri: questi ultimi, giustamente, li chiama "gli ex ostaggi italiani"; le due ragazze invece le chiama sprezzantemente "le vispe terese".

Il "Corriere della Sera", sempre in prima pagina, pubblica un più sobrio articolo non firmato, intitolato "Lessico da brivido". Giuseppe D’Avanzo, su "Repubblica", sostiene più o meno gli stessi argomenti del "Corriere" e censura il giudice.

Dobbiamo spiegare ai nostri lettori perché non abbiamo dato la prima pagina (né la seconda, né la terza, né la quarta) a questa notizia. La ragione è semplice. Ci è sembrato che esagerare il senso delle parole (in parte infelici) del giudice di Bari non servisse a nulla, e fosse solo un modo per chiamare in causa, mettere in angoscia, esporre alla curiosità o al ludibrio tre poveri ragazzi che hanno subito terrificanti sofferenze in Iraq e che non sono colpevoli di alcun reato; tre ragazzi che hanno poche possibilità di difendersi da accuse generiche amplificate dai giornali. Non ci interessa molto sapere se quei ragazzi sono di destra o di sinistra, non ci sembra una ragione sufficiente per santificarli o esporli al linciaggio. Il giudice di Bari ha espresso dei giudizi su di loro, non considerandoli però "soggetti" di reato, ma "oggetti di reato". Il reato sul quale quel giudice ha indagato – e sta indagando – è quello probabilmente commesso da chi ha reclutato i quattro italiani, violando la legge italiana, e mandandoli poi in Iraq a rischiare – e in un caso a perdere – la propria vita. In Italia questo è un reato. Per fortuna. Ha fatto benissimo il giudice di Bari a svolgere l’indagine e speriamo che arrivi a risultati concreti. Ha sbagliato nel pronunciare le frasi riportate da tutti i giornali. Ha fatto un errore di buongusto nell’usare la parola "mercenari", che in senso tecnico può anche non essere sbagliata ma che contiene una carica di disprezzo che poteva essere evitata. E soprattutto ha sbagliato nel dire che tutto questo «spiega se non giustifica…l’azione dei rapitori». No, non giustifica nulla. Fabrizio Quattrocchi è stato catturato dai guerriglieri iracheni – non sappiamo da chi e a che scopo – evidentemente perché considerato un soldato nemico, ma nessuna convenzione internazionale, nessun codice di guerra, nessuna concezione etica o religione autorizza a uccidere senza motivo i prigionieri. L’uccisione di Quattrocchi è stata un orrore ed è stato invece molto fiero e dignitoso – ci raccontano le cronache – il suo atteggiamento di fronte ai fucilatori.

Evidentemente siamo entrati ormai in un clima di guerra così infernale – e che ci condiziona tutti – da non tenere più in nessun conto il buonsenso e il diritto internazionale. Il fatto che l’uno e l’altro siano stati e siano continuamente violati dalle truppe di occupazione americane – che hanno ostentatamente rifiutato la Convenzione di Ginevra – non autorizza nessuno a pensare che allora in guerra tutto è lecito da parte dei belligeranti.

Detto questo c’è un ragionamento da fare sui linguaggi. Non tanto su quelli di "Libero" e del "Giornale", che francamente – nell’ormai parossistico attacco a Simona Pari e Simona Torretta – superano ogni limite della civiltà e dell’etica professionale ("Libero" tra l’altro sbeffeggiò e insultò il povero nostro collega Baldoni, dopo la sua morte). Ma anche sui linguaggi usati da giornali assai più seri e rispettabili. è giusto definire da "brivido" le frasi sbagliate del giudice barese, come ha fatto il "Corriere della Sera". Però a una condizione: che si usi lo stesso metro rigoroso quando si parla degli altri, cioè dei "nemici" degli americani, cioè della popolazione che subisce l’occupazione, cioè degli iracheni. I giornali americani, per esempio, non usano quasi mai la parola "terrorist". Usano la parola "insurgence" o "resistence", cioè insorti o resistenti. I giornali ispanici parlano di "rebelde", ribelli. Noi no: noi diciamo solo terroristi, tenendo insieme i miserabili tagliagole e i nuclei della guerriglia irachena. è giusto questo linguaggio? Aiuta a capire o semina confusione e spinge verso un atteggiamento di ostilità e quasi di razzismo verso gli iracheni? Su tutti i giornali italiani, continuamente, nei titoli di testata, si legge: "terrorismo islamico" E nessuno sobbalza. Cosa succederebbe se un giornale scrivesse, riferito agli attacchi americani a Fallujia, "Bombardamenti cristiani", o parlando di occupazione della Palestina scrivesse: "assedio ebreo"?.

In parte tutto questo è inevitabile. La guerra travolge il senso comune, distrugge i linguaggi e il diritto. Però i giornali sono quelli che hanno il dovere di reagire. Tocca a loro impedire uno scivolamento di civiltà.

P. S.

Scivolamento di civiltà già largamente avvenuto nel mondo politico e al vertice degli stati. Dopo la notizia dell’incidente a Fidel Castro, gli Usa hanno fatto sapere che non gli augurano una pronta guarigione. Il commissario europeo Loyola de Palacio è andata oltre. Ha detto: «Tutti speriamo che Castro muoia quanto prima». Non si trovano nemmeno le parole per commentare certe idiozie. Come si può pensare, con queste idee, con questa feroce faziosità, di fare la lotta al terrorismo?

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