"GRAZIE MARINA"

Dopo aver trovato per miracolo un parcheggio, mi fumo in fretta e furia una sigaretta mentre corro verso il teatro Palladium. Cerco di anticipare una eventuale voglia di fumare perché una volta dentro il teatro non lo potrei più fare. Sono uno degli ultimi ad entrare. Marina Abramovic mancava dalla scena italiana da parecchio tempo ormai. Salgo le scale in fretta. Appena entro in galleria scorgo sulla mia destra il palcoscenico illuminato da una luce intensa di colore giallo. Mi giro a guardare. Mi attira molto una luce bianca al centro dello sfondo scenografico giallo. Riconosco nella luce bianca le sembianze di un corpo umano di donna, sospeso nel vuoto, con le braccia larghe e i pugni serrati dai quali pendono, per come li percepisco, miope come sono, due bastoni. Cerco il mio posto prenotato. Mi dico che è lei Marina Abramovic. Prima di questo momento non avevo mai avuto modo di vederla dal vivo. Negli anni ’60 insieme a Gina Pane, Orlan e tanti altri, ha rivoluzionato il concetto di "fare arte", provocando un profondo cambiamento della concezione tradizionale del prodotto artistico, e, allo stesso tempo, del rapporto tra l’artista creatore e il fruitore. Ma soprattutto ha dato voce al proprio corpo, lasciando ampio spazio di espressione alle emozioni e ai vissuti profondi. Per la prima volta nella storia dell’arte, alcuni artisti hanno deciso che non dovevano delegare alla tela, alla pietra o al bronzo, la propria verità artistica, ma hanno avvertito il bisogno autentico di far esprimere direttamente il proprio corpo. Lei è lassù con una concentrazione tipica di chi ha conseguito una preparazione orientale. è una divinità, forse "madre natura" che dona al mondo i suoi seni scoperti. Il suo corpo, così eretto, sospeso nel vuoto, con le braccia aperte, suggerisce la forma di una croce. Questa immagine sprigiona in me una forte sensazione, come se detenesse la forza di trasmutare la vita in morte e tutto ciò che è inanimato di ridargli nuovamente vita. A un tratto sotto di lei entrano in scena due cani neri; si avventano su delle ossa allineate, che fino a qualche istante prima le avevo semplicemente associate a delle forme antropomorfe di Dubuffet. Mi viene da pensare alla guerra in Irak, poi, invece, penso allo scempio che è avvenuto in Jugoslavia pochi anni fà, il paese natale di Marina Abramovic. Tutto avviene rapidamente. Ho delle sensazioni forti suscitate dalle immagini: tutto l’istinto malvagio e tutta l’avidità che può covare nell’essere umano, è rappresentata in questa scena che libera gli istinti più bestiali e più crudeli. Ma se in basso si manifesta la realtà, lassù c’è la redenzione. Una cantante lirica entra in scena e con il suo bellissimo canto rompe la tortura infernale dei latrati purificando così l’anima. Successivamente la divinità muoverà le braccia, e i bastoni che stringe nei pugni si muovono, si attorcigliano. Non sono dei bastoni, sono dei serpenti veri! Mamma mia quanto sono lunghi! Tutto questo è il preambolo e il progetto esistenziale per un cambiamento. Ai lati della scena scorrono delle scritte in rosso che raccontano le fasi o gli episodi autobiografici dell?artista che appariranno per tutto il corso dello spettacolo-performance. Dopodiché si avvia il percorso narrato attraverso varie rappresentazioni filmate proiettate su uno schermo gigante che alternano rappresentazioni eseguite in scena. Sono tutte rappresentazioni di performances eseguite nel corso degli anni da Marina Abramovic da sola, oppure accompagnata dal suo ex compagno di vita, oppure vengono interpretate dai suoi attuali studenti. In breve, mentre la rappresentazione continua, capisco meglio l?intento e la caratteristica principale del lavoro che sto vedendo, il quale vuole narrare una vita, la sua vita, quella di Marina, che passa attraverso diverse fasi. Quella della sofferenza procurata dalle critiche ricevute dalla madre che non ha mai apprezzato il suo modo di fare arte. Marina stessa racconta che quando era nata sua madre aveva avuto la sensazione di partorire un pitone. Quella della rabbia viscerale, rappresentata attraverso una performance filmata di un uomo e una donna che si urlano addosso, protesi l’uno verso l’altro, tenendo i propri nasi a una distanza di pochi centimetri, in un confronto che non ha né vinti né vincitori. Successivamente viene calato nuovamente lo schermo sul quale appaiono decine di volti di monaci tibetani che pregano o comunque esprimono un atteggiamento di profonda riflessione. Questa scena è molto intensa e suggestiva. Quando guardo tutti questi volti insieme, ho la sensazione di avere dinanzi a me l’anima del mondo che si rivela in tutto il suo splendore spirituale. Allo stesso modo come faceva l’artista inglese David Hockney che assemblava tante fotografie, ognuna delle quali ritrae una parte piccola parte del corpo della persona, e tutte insieme restituiscono il ritratto della persona intera. Il lavoro dei ritratti tibetani, di Marina Abramovic, è un inno alla coralità. Questa è la fase in cui l’artista si apre al mondo. Io in mezzo a tutte le persone del pubblico, assistiamo a questo evento nel quale siamo proiettati. Le sensazioni schiaccianti della solitudine e della miseria, vengono spazzate via da una speranza di essere capaci di incontrare se stessi e di ascoltare la propria voce interiore nell’intimità. Ciò comporta la volontà di andare in avanti e cercare il "nuovo". Ma non basta mettersi a nudo. Occorre liberarsi da quei vincoli interni che impediscono e contrastano il desiderio di andare verso il mondo esterno. Questa riflessione mi è stata suggerita da una performance in cui un uomo completamente nudo cammina in avanti, ma un forte elastico lo trattiene all’altezza del bacino e lo respinge indietro schiacciandolo contro la parete dalla quale l’uomo costantemente si vuole distaccare per cercare di andare avanti a sé. E ancora, Marina Abramovic ci propone un’altra riflessione sulla ricerca del proprio equilibrio attraverso una performance interpretata da una donna completamente spoglia da ogni indumento, che si tiene in equilibrio a cavallo di un unico paletto, tenendo le gambe divaricate e le braccia aperte.
Successivamente si passa alla fase dell’incontro con l’altro (o con l’altra) diverso da sé. Un uomo e una donna si accovacciano sui talloni, l’uno di fronte all’altro. Le ginocchia della donna toccano le ginocchia dell’uomo. La parte superiore del corpo è rivestita di bianco, mentre la parte inferiore è rivestita di nero. L’uomo guarda negli occhi della donna così come lei guarda negli occhi di lui. Esiste un tacito consenso in questo reciproco sguardo in cui la sensazione dell?intimità e di accoglienza sono rafforzati dalla forma a "U" che disegnano i loro corpi uniti dalle ginocchia uno di fronte all’altro. La forma a "U" suscita in me la sensazione di essere accolto, seguita dall’immagine di un vaso, o meglio ancora di un utero. L’emozione sale quando vado ancora oltre con il pensiero raggiungendo l’idea che così come è possibile accogliere una nuova vita quando si concretizza l’unione tra una donna e un uomo, allo stesso modo, quando le parti opposte, all’interno della stessa persona, si incontrano e si integrano (il nero con il bianco, l’inferiore con il superiore, la parte femminile con la parte maschile, la mente con il corpo, l’istinto con la ragione, l’aspetto bestiale con l’aspetto spirituale, il profano con il sacro) ciò rende possibile un processo di trasformazione determinando una nuova nascita interiore della persona.
Dopo qualche istante la donna e l’uomo iniziano a schiaffeggiarsi a tempi alterni. Progressivamente entrano altre coppie che prendono la stessa postura corporea. Anche loro si schiaffeggiano. Il ritmo degli schiaffi assume toni ironici, restituendo la sensazione di ascoltare un brano ritmico sperimentale tipico del musicista compositore Xenakis. Insomma, il rapporto di coppia non è sempre idilliaco. Però nonostante i contrasti e le reciproche accuse non ci sono né morti e feriti, e, come cantava Eugenio Finardi : .
Sul finire della rappresentazione appare Marina Abramovic, in piedi, in mezzo al palcoscenico, rivestita di un lungo indumento a forma di gonna fino ai piedi, a maniche lunghe, di un unico colore verde cangiante. Il colore della vita. Appare da sola in mezzo al palcoscenico. Non è più una dea, ma una persona, consapevole della propria esistenza e del fatto che adesso l’unica persona di cui deve avere cura è lei stessa, poiché non c’è nessun’altro all’infuori di se stessa che può essere in grado di essere consapevole della propria vita, dei suoi limiti, dei propri dolori, dei propri desideri, dei propri sogni. Nell’arco di una vita non c’è cosa più preziosa che cogliere i segni del percorso tracciato dai momenti di dolore e dai momenti di gioia, i quali entrambi conducono alla consapevolezza che la propria vita partorisce la propria storia, così come quando si arriva a prendere coscienza del proprio mondo interno, allora si è capaci di contattare il mondo che è intorno a noi e che ci accoglie come se fosse una dea "madre natura".
K. Gibran ha scritto: Grazie Marina.

Roma, 8.10.04

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