INCHIESTAViaggio nei manicomi della vicina Albania. E nei progetti di riforma sociale

Da diversi anni non partono più scafi di clandestini da Valona. Sui muri delle case del centro si vedono ancora i segni lasciati dalle raffiche di kalashnikov negli scontri del ’97, ai tempi del "bandito Zani", oggi in carcere, e della rivolta popolare contro le società  piramidali, che offrivano interessi favolosi a chi cedeva i propri risparmi e coinvolgeva altri risparmiatori in una specie di catena di Sant’Antonio allargata a tutta l’Albania e finita in bancarotta. Valona è molto cambiata da allora. Il parlamento ha approvato un mese fa la concessione per trent’anni alla "Petrolifera italo-rumena", di proprietà  degli Ottolenghi di Ravenna, di una superficie di 183mila mq alle spalle del porto. La Pir investirà  32 milioni di euro per costruire il più grosso deposito di carburante del paese e un nuovo scalo portuale, collegato al progetto della società  americana Ambo di costruire a Valona il terminale del "Corridoio 8", l’oleodotto che da Burgas, sul mar Nero, trasporta il petrolio russo attraverso i Balcani. Ora che la bella stagione è cominciata, è più facile percepire la vitalità  di questa città  cresciuta in fretta – oggi ha oltre duecentomila abitanti. Tra le palme del lungomare di Skele riaprono i bar e le pizzerie all’aperto, i bagni mettono fuori ombrelloni e sdraio; la sera si riempie di gente che passeggia fino al tunnel naturale, dove sopravvive disabitata e depredata la villa di Enver Hoxha, padre padrone del particolarissimo comunismo che ha resistito quasi cinquant’anni.

Lo Spitale Neuropsichiatric Hali Mihali, il manicomio di Valona, è appena dietro il lungomare, in una parallela dove il paesaggio cambia molto, tra pochi villini nuovi, scheletri di palazzi mai finiti, case poverissime e bunker di cemento armato (ce n’è oltre mezzo milione in tutto il paese, soprattutto lungo le coste). C’è un bunker anche qui – divelto e rovesciato come un’enorme scodella – di fronte all’ingresso del manicomio, insediato dagli anni `20 in una ex caserma italiana che dall’esterno sembra una vecchia villa di campagna, con grandi alberi non curati, il pergolato, una fontana senz’acqua, galli, galline e gatti che fanno la loro vita indisturbati.

L’ingresso dell’accettazione maschile è chiuso da una cancellata di ferro con catena e lucchetto. Dentro, poche stanze stipate di letti arrugginiti, persone che dormono su due dita di gommapiuma senza lenzuola, gabinetti senza porte, uno stanzino per la distribuzione del pranzo – che i quaranta ricoverati mangeranno in parte in piedi perché i tavoli sono pochi e le sedie ancora e meno – in un fetore che ristagna nonostante i vetri aperti oltre le sbarre. Qui, come nel resto del paese, quasi tutti parlano italiano, imparato dalla televisione guardandola per ore tutti i giorni, spiega Antonio – "Sant’Antonio", dice lui, che ha questo nome per via dei soldati italiani che suo padre aiutò nel `41, quando il fascismo voleva spezzare le reni alla Grecia e proprio qui a Valona subì una disfatta.

Antonio sa tutto del calcio italiano e dei cantanti ma non è mai stato in Italia, a differenza di Skerdi, che ha fatto il manovale a Palestrina, di Kerim, manovale a Mantova e poi cameriere, e anche dell’infermiere Viron, che ha lavorato cinque anni all’ospedale civile di Senigallia ed è ritornato per la morte di suo fratello, non riuscendo poi a ripartire. Ora lavora mestamente in questo reparto dove la gente sta qualche mese, esce e dopo un po’ ritorna, "perché a casa non prendono le medicine e non trovano nulla, solo i vecchi che non ce la fanno a badarli". Così Baftiar, che era emigrato in Germania e pensava di essere una cavia dei tedeschi che gli avevano messo telecamere nei denti, è tornato dentro per la quarta volta e adesso sta accucciato a terra, imbambolato dai farmaci. Anche Bledi, ventidue anni, il più giovane del reparto, bello, ben vestito, gentile e assente, ha una storia di emigrazione. Tutta la sua famiglia era andata in Grecia nei tempi più disperati, quando a Bari arrivava la nave con diecimila persone. Lui, il più piccolo e forse il più protetto, ha fatto ad Atene le scuole tecniche, poi ha lavorato in un deposito di bombole ma è stato male subito – droga, nel suo racconto, scoppio psicotico nelle scarne notizie della cartella clinica – e allora i vecchi sono tornati indietro con lui e una sorella, lasciando gli altri in Grecia e un fratello in America.

Su tre milioni di abitanti, l’Albania conta oggi oltre ottocentomila emigrati, la seconda risorsa del paese dopo gli aiuti internazionali. è anche grazie alle rimesse degli emigrati, e al ritorno di qualcuno, che il corso di Valona ha bei palazzi moderni costruiti da architetti italiani, bar alla moda come il Palma, che d’estate funziona tutta la notte, sale con videogiochi, bingo e biliardo, discoteche e centri commerciali come il Riviera, tre piani con boutique italiane e ristorante. Dentro il manicomio c’è l’altra faccia dell’emigrazione, il ritorno sconfitto, lo sradicamento insostenibile, o la solitudine e la debolezza di chi è rimasto: come Nazmie, abbandonata giovanissima dal marito, qui da tre anni perché non sa dove andare e i fratelli, che vivono a Berati, non rispondono alle lettere dell’ospedale che vuol dimetterla.

Il reparto femminile è meno drammatico, le donne lavano e stendono sulle grate i propri vestiti, alcune aiutano nelle pulizie e nella sorveglianza. "Io sto bene ma non ho casa e mi piace stare qui" – dice Dafina, bella, ben truccata e molto severa con chi si affolla al cancello di ingresso. Dafina ha una figlia piccola che non vede da anni e nessun altro parente perché è cresciuta in orfanotrofio, divorziata come Dudi, che ha un figlio in Italia ma non sa dove, portata qui tre anni fa da Tirana da sua sorella e dalla madre che temono una sua fuga verso casa.

I reparti più terribili stanno in cima alla collina, pericolante come quasi tutta questa parte della città  per via del disboscamento selvaggio e dell’edilizia abusiva. A destra, rinchiusi in un silenzio assoluto, vivono gli internati tubercolotici; al centro il reparto delle persone definite "croniche" o "insufficienti mentali", uomini spesso ancor giovani che stanno buttati a terra nel sole del pomeriggio oppure vagano avanti e indietro tenuti a bada da un infermiere, mentre due colleghe in inappuntabili camici bianchi lavorano all’uncinetto.

"Non è la povertà  di risorse il problema principale di questo posto", dice Carmen Roll, l’infermiera tedesca ormai italiana, dopo quasi trent’anni di lavoro nella Trieste di Franco Basaglia, che coordina da oltre un anno il progetto "Riduzione dell’esclusione sociale, salute mentale e imprese sociali", componente di un grosso intervento della cooperazione italiana e delle Nazioni unite. "Il problema è la macchina del manicomio, che distrugge tutto e tutti". Com’è successo al primo intervento fatto qui tra il `98 e il 2000 dalla ong italiana Avsi della Compagnia delle Opere, che con un milione e mezzo di dollari ha consolidato la struttura del manicomio, rifacendo in parte tetti e fogne, rinnovando grate, inferriate e lucchetti, e acquistando una cucina elettrica – in una città  dove ogni giorno manca la luce tra mezzogiorno e le cinque, così che il pranzo si continua a prepararlo con i fornelli a legna di sempre.

"Noi non vogliamo ristrutturare questo luogo, vogliamo uscire di qui con i ricoverati e il personale per costruire servizi comunitari e integrazione sociale". De-istituzionalizzare i manicomi e riconvertire la spesa è anche l’orientamento ufficiale; e del resto è la sola strada per tentar di far fronte a una domanda che cresce, o diventa più visibile e drammatica, per via dei terremoti sociali di questo paese: negli anni `80 solo il trenta per cento della popolazione viveva in città , mentre oggi à  quasi la metà  degli albanesi che vive in città  una vita nuova, spesso priva di legami e reti sociali.

Il lavoro a Valona è iniziato l’estate scorsa con una specie di "brigata internazionale" che ha dato una prima scossa. Giovani medici e psicologi da Trieste, Torino e Milano, volontari della Caritas, un gruppo di tedeschi di Brema, alcuni giovani laureati albanesi hanno vissuto tre mesi con gruppi di ricoverati e alcuni infermieri che si alternavano per due settimane di vacanza in una palazzina che il progetto aveva affittato nel complesso residenziale dove ai tempi del comunismo andavano in vacanza famiglie di dirigenti e operai-modello. Sono andati in spiaggia ogni mattina, hanno comprato vestiti, costumi da bagno, teli da mare, hanno frequentato i bar e incrociato la vita e gli sguardi della gente della città  e degli altri ospiti del complesso, tra le paure e la resistenza del direttore – che però alla fine li ha ringraziati, dopo che a ferragosto era stato lì in vacanza Kastriot Mucho, segretario del più importante sindacato albanese, affascinato dal lavoro del progetto.

L’avventura di quei tre mesi di lavoro nella casa di vacanze e nei reparti ha prodotto risultati importanti, dice Chiara Strutti, del Centro mediterraneo della Organizzazione mondiale della sanità  (Oms). "Il vecchio direttore si è dimesso, la nuova direzione del manicomio e del distretto sanitario partecipano al progetto, con indennità  straordinarie al personale che si impegna in precisi programmi di riabilitazione e di lavoro esterno nei centri di salute mentale". Trasformare il manicomio significa anche combattere la corruzione, che in questo paese segna ogni aspetto della vita sociale, dalla giustizia all’economia. "Certamente appartiene al vecchio mondo questo sistema della corruzione – dice Ledia Lazeri, giovane psichiatra della Oms di Tirana – nella nostra società  non c’è mai stata consapevolezza dei diritti nè delle responsabilità . Ma la corruzione arriva anche dal futuro, dal mondo globale. Le case farmaceutiche produttrici dei nuovi antipsicotici atipici sono attivissime anche qui, con i sistemi soliti: regali costosi e viaggi informativi per medici e mogli al seguito, in alberghi lussuosi all’estero.

Accanto o insieme al lavoro nei manicomi si muovono in Albania tante iniziative di segno analogo, prodotte dal reticolo della "cooperazione decentrata" di regioni e comuni italiani, come la guida della regione di Valona, l’unica nel paese, parte di un programma di valorizzazione turistica e con "itinerari, servizi, spiagge, montagne, caverne, storie sconosciute, ricette", risultato di un lavoro minuzioso di contatti e tentativo di offrire a Valona uno specchio di sè insieme a uno strumento di sviluppo diffuso. Ma è difficile capire quanto tutto ciò riesca a incidere, in questo paese che "va veloce" come la giovane Vesna del film di Mazzacurati. L’Albania cresce quasi come la Cina, intorno al 6%, ma resta tra le economie più povere economie, con un reddito pro capite di 1.230 dollari. Banca mondiale e Fmi oggi richiedono politiche antipovertà  ai paesi che accedono al prestito. Ma accompagnate dalla ricetta nota: privatizzazione dei settori strategici (energia, trasporti e telecomunicazioni, banche), assicurazioni private per la sanità , gestione privata delle risorse idriche. Allo stato rimane il compito di rispettare quest’agenda.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *