Senza titolo

ADESSO ci vorrebbe un altro blitz leggero e fulminate per liberare gli ex ostaggi dalla nuova pesante e umiliante prigione nella quale li abbiamo rinchiusi. C’è bisogno di un generale come Sanchez per sottrarli alle catene della retorica nazionale, grevi come quelle delle brigate verdi.

E bisognerebbe tornare a un lavoro di intelligence ispirato alla compostezza perché questa seconda galera è fatta di sbracata politica da cortile come quella era fatta di fanatismo religioso, là  c’erano le armi e qui ci sono le fanfare, là  i kalashnikov e qui i mortaretti, i tric trac e gli sms di propaganda, là  c’era Al Jazeera con le sue registrazioni e qui c’è Gasparri con le sue videoconferenze, là  erano animali preparati al macello e qui sono pappagalli esibiti nei comizi sulla spalla di Gasparri, là  ci riconoscevamo in loro, qui non li riconosciamo.

Ci vuole insomma un’altra liberazione per strapparli all’indecenza della ribalta, ai "secondini" fondamentalisti di Porta a Porta (ricordiamolo: in arabo si traduce Bab Bab), e restituirli alla normalità , per farli evadere dagli spagnolismi tronfi e imbarazzanti di Berlusconi, dagli urli elettorali e dai pianti delle piazze di paese.

Solo le mamme hanno il diritto di urlare quando uno muore, o di piangere di gioia quando viene salvato. Nella mamma è lecito l’andare oltre la riga perché un figlio sta sempre oltre la riga. Ma il Paese non è la mamma, e i nostri ostaggi, finalmente liberati, sono tre giovani normalissimi sui quali non c’è molto da dire, non hanno la densa solidità  delle qualità  o dei difetti esemplari, e la loro liberazione merita la discrezione delle azioni di guerra, perché è stata un’operazione militare e non elettorale, roba da teste di cuoio e non da Filumena Marturano.

Agliana, Cupertino e Stefio non sono truci armieri o peggio collezionisti di scalpi iracheni come li vorrebbe la parte peggiore della sinistra, ma neppure eroi da favola, uomini-simbolo di un progetto nazionale come li vorrebbe Berlusconi. Sono così normali che nella loro odissea in Iraq c’è la traccia di tantissimi altri italiani, un po’ di garibaldismo e un po’ di quell’emigrazione che all’avventura ha dato un grande contributo, giovani italiani che ancora oggi vanno e stanno dappertutto, in Catalogna e in Centro America, a Londra come in Cina, a Cuba e in Bosnia, medici scalzi o guardie del corpo, funzionari dell’Onu o cuochi, italiani meridionali come questi ex ostaggi, siciliani e pugliesi sempre in bilico tra l’azzardo e il progetto, al confine tra la nobiltà  e la decenza, emigranti disperati o speranzosi, emigranti per ambizione o per caso.

Ci sono più italiani meridionali in giro per il mondo che nel nostro meridione. E sempre, in ogni avventura, accanto alla voglia di farcela, alla spudoratezza del disoccupato, alla necessità  che si fa virtù, c’è un indizio, un odore e un rimando a Paul Nizan, alla sua Aden Arabia, a un furore, a una pulsione, a un qualcosa, via dall’Europa, per consegnarsi all’astratta voglia di essere altrove e di ristrutturare tutti i valori, addormentati, sopiti e sdruciti. Ebbene, bisogna mettersi chiaro in testa che tutto questo oggi può benissimo stare anche dentro An.

Quella di An è una tessera politica come un’altra, i ragazzi di An non hanno ucciso Matteotti, non hanno gasato gli etiopi e perseguitato gli ebrei. E se forse in Iraq ci vanno quelli di destra è solo perché la sinistra non ha ancora spiegato che ci si può e ci deve andare anche da sinistra, ingegneri o dispensatori di acque minerali, come si va nelle zone delle alluvioni, dei terremoti, come appunto i quattro ex ostaggi che facevano da scorta contro i banditi, non a distruggere gli ultimi resti della civlità  mesopotamica ma ad aiutarla, non ad occupare ma a a ricostruire.

E si può andare in Iraq in un modo politicamente corretto, con la Croce Rossa e con i carabinieri, o in modo politicamente scoperto come hanno fatto questi ragazzi. Comunque ci si vada, è una pulsione misteriosa ma normale che ci spinge. è un po’ di Paul Nizan che ci si porta dietro.

E invece, nell’urgano pre-elettorale, ci stanno rubando Paul Nizan, la banale voglia d’avventura e la pulsione giovanile per l’Altrove, Bagdad o Aden Arabia, il Guatemala come l’Iraq. Ce li sta rubando Silvio Berlusconi che, in cerca di spezie elettorali, ha subito assimilato Agliana, Cupertino e Stefio a Taricone, a Maria Teresa Ruta, a Pappalardo e a tutti i fenomeni del baraccone mediatico.

Ce li sta rubando An che ne celebra l’appartenenza come se i tre fossero giovani Tremaglia, con un piede in Salò e l’altro a Palazzo a Chigi. Ce li sta rubando la sinistra che come sempre cade nella trappola e davvero crede che questi ragazzi siano diversi e peggiori dei suoi ragazzi, che un giovane che si iscrive ad An commetta già  un reato, e non solo di bon ton.
Persino loro, i tre ostaggi, stanno mortificando il senso della propria avventura. Sono i depredati che depredano.

Si sono subito scrollati di dosso quell’alone di violenta purezza e di innocenza che avevano nella prigione delle brigate verdi. Da tre giorni si prestano ai discorsi da balcone, al suono delle fanfare, all’esibizione nelle piazze di Paese, alle parate col sindaco, alla vacuità  di una falsa gloria che potrebbe perderli, complice qualche passaggio da Maurizio Costanzo e signora, presto costringendoli a rientrare in se stessi, e proprio quando si saranno convinti di poterne finalmente uscire.

Decorati vivi alla memoria sono ubriachi del vino politico che è stato loro offerto, protagonisti consapevoli e felici di una sagra arcitaliana che non ha uguali al mondo. In Polonia, per esempio, l’ostaggio è rientrato su un aereo di linea e giustamente, dopo avere dato la sua testimonianza, si è imbucato a festeggiare chissà  dove.

Addirittura in Giappone lo Stato ha chiesto i danni ai connazionali prigionieri che è riuscito a liberare. Se si esclude il caso del soldato Jessica, che è un copione da film, in America, che pure è la patria della televisione e con il massimo di esposizione sull’argomento, la morte e la liberazione si risolvono entrambe in un cerimoniale che è tanto sobrio quanto lo permette la necessaria retorica di circostanza.

Invece in Italia la politica del pollaio non risparmia nessuno, non tollera la presenza di aquile, falchi e volatili nobili, e perciò subito li riporta a terra, nel mezzo del cortile. Certo, l’uso politico di un successo militare è legittimo e non deve scandalizzarci. Ma qui siamo già  oltre l’abuso, non c’è più tono, nè stile nè gusto, non c’è nulla di ponderato, ed è ridicolo quel leader che ha bisogno di inventarsi eroi e antieroi per nascondere i propri difetti, le proprie inadeguatezze, i propri cattivi odori.

Questa è stata sicuramente una bella operazione, per la gioia delle famiglie e delle persone che amano Agliana, Cupertino e Stefio e che concretamente li hanno riavuti, ma l’indiscutibile successo militare non può essere sbriciolato nei mammismi, nel teatrino di Berlusconi, non può essere infarinato con tutti i miasmi elettorali, nei comizi di provincia, nei sondaggi, nei soliti eccessi servizievoli di Porta a Porta Bab Bab.

È probabile che subito dopo le elezioni anche i nomi degli ex ostaggi verranno dimenticati, certamente non diventeranno uno di quei miti che sorreggono la realtà  perché cristallizzano interessi, speranze, e passioni.
Aiutiamoli dunque a ritrovare se stessi, a tornare normali, definitivamente liberiamoli. Anche perché la guerra è lunga e non sempre la mamma riuscirà  a dare il passo al Paese.

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