L’antropologia, lungi dal rappresentare una enciclopedia della culture umane, è una continua interrogazione su come noi produciamo ciò che viene chiamata conoscenza dell’Altro e della differenza. Il sapere antropologico ha attraversato varie fasi negli ultimi secoli, dando interpretazioni diverse del concetto di "cultura" e di "differenza culturale". Esse sono state sempre un punto di riferimento per la pedagogia, che vi ha costruito via via i fondamenti dei diversi modelli di educazione culturale nei secoli.
Anche oggi la visione antropologica costituisce l’impianto teorico-epistemologico su cui prende forma la ricerca psico-pedagogica trans-culturale contemporanea, mettendo in luce tutta una serie di limiti e di contraddizioni di molti studi occidentali degli ultimi due secoli.
La domanda allora è: la riflessione antropologica attuale quali spunti può dare all’educazione interculturale? Quale visione di "cultura" può aiutare la pedagogia interculturale a costruire contesti in cui favorire la nascita di una società interculturale?
La svolta dialogica nelle scienze umane ha avuto un’importante conseguenza in antropologia sulla concezione della "cultura": la cultura come insieme di significati attribuiti al mondo(e quindi la differenza culturale) non è precedente alla relazione, ma è il frutto della relazione stessa. Un mondo viene "costruito"e descritto in un certo modo attraverso l’interazione tra l’antropologo che osserva con i suoi schemi e l’informatore che costruisce nella relazione la sua rappresentazione pubblica della propria cultura.
Questo approccio interpretativo ci invita quindi a non considerare la descrizione culturale come oggettiva: l’informatore, inteso come colui che narra la propria cultura ad un altro, riflette e svela una ragnatela di significati come lui li percepisce. A sua volta, l’antropologo, o colui che ascolta la narrazione, li interpreterà .
L’informatore diventa così un attore che non riproduce fedelmente, ma ricostruisce nella relazione con l’antropologo una visione dei significati della sua cultura di appartenenza.
Ciò che diventa importante non è solamente il prodotto finale (ciò che per esempio emerge sulla cultura marocchina), ma anche il processo interattivo (cioè: "chi dice che cosa", "quando", "a chi") che porta a quel tipo di informazione.
Come in una visione sistemica ogni parte prende senso dal contesto (la nicchia di sviluppo o ecosistema), così anche la visione della cultura resa pubblica diventa funzionale al contesto entro il quale si svolge la ricerca, il colloquio, la narrazione.
In questa prospettiva ciò che racconta Karim del Marocco non è la cultura marocchina, ma ciò che un bambino marocchino dice in un contesto ben preciso (ad esempio la scuola, o una festa tra amici, o un’intervista per un giornale, ecc.) per situare se stesso in quella circostanza rispetto al proprio mondo.
Il dialogo sul campo non viene più considerato un mezzo per designare mondi che sono al di fuori dell’interazione, ma come il terreno in cui tali mondi vengono co-prodotti e che sono validi in quel momento, in quella situazione, e che corre il rischio di diventare "il significato marocchino di…
Infatti interviene l’ operazione mentale della "generalizzazione", che attribuisce al gruppo etnico di appartenenza di Karim (i marocchini) quella struttura di significati che è invece localizzata e situata in un contesto ben preciso della relazione.
Seguendo questo ragionamento anche le differenze e specificità culturali non esistono di per sè, sono prodotte dall’interazione tra persone che scelgono di presentarsi all’altro negoziando continuamente la propria rappresentazione di sè e della propria visione del mondo.
In breve, ci rendiamo consapevoli delle differenze quando subentra l’operazione mentale del "confronto", che lavora sulle similitudini e sulle diversificazioni. Da qui nasce una doppia tendenza: cercare da una parte proposizioni valide universalmente e che parlino della "natura umana", dall’altra concludere che ogni credenza va interpretata all’interno della concezione del mondo a cui appartiene.
Ambedue le posizioni, quella "universalistica" e quella "relativistica", contengono dei rischi: la prima di attribuire a tutti le stesse istanze, la seconda di giustificare ogni pratica ed evento culturale in quanto relativo ad una determinata cultura.
Ambedue le posizioni possono poi portare ad azioni di discriminazione, una creando gerarchie di etnie o razze in base ai propri schemi ritenuti universali, l’altra esasperando le differenze fino ad arrivare ad una etnicizzazione dei gruppi e delle persone.
Se la riflessione intorno ai paradossi e ai dilemmi dell’antropologia sono questi, quale sapere è coerente con la costruzione di una pedagogia interculturale?
Come abbiamo visto, ogni pretesa di ricavare dai resoconti etnografici un sapere che ci aiuti a capire l’altro si scontra con l’ attuale riflessione epistemologica degli antropologi che nega la possibilità di rendere oggettivo un sapere esperienziale proprio e di generalizzare il corpus di informazioni tratte dal loro lavoro.
Se "i marocchini" e la "loro ragnatela di significati" in base alla quale interpretano la loro esperienza e il mondo, sono alla fine un prodotto interno alla ricerca e al testo etnografico, come posso utilizzare questa esperienza per permettere il dialogo tra me e Karim, che arriva dal Marocco?
"Ciò che all’ antropologia si può ragionevolmente chiedere da un punto di vista pedagogico è il suo essere un esempio di costruzione di conoscenza a partire dall’interazione" .
In altre parole: in quanto educatori interculturali possiamo condividere con l’antropologia "il mestiere e non il sapere" e la speranza che nell’interazione concreta e nel dialogo con la persona reale possiamo arrivare ad una negoziazione dei significati per l’altro importanti, co-costruendo anche mondi temporaneamente stabili.
L’incontro interculturale in contesti multietnici e plurilinguistici condivide con la ricerca etnografica il "come" si imposta l’interazione e non "cosa": questo (il sapere) sarà frutto delle modalità dell’incontro stesso, del suo contesto e dei soggetti coinvolti.
La cultura rappresentata non esiste stabilmente nella mente di qualcuno, ma viene modificata e trasformata nell’interazione reciproca tra i soggetti dell’incontro.
Per l’educatore questo significa essere consapevoli che le proprie letture sulle culture altre possono solo rappresentare scenari lontani all’interno dei quali comprendere gli allievi stranieri, ma che nuovamente tutto si gioca sull’interazione concreta. Questo richiede all’educatore competenze de-costruttive per indagare i presupposti sui quali vengono costruiti modelli scolastici, di programmazione educativa, gli obiettivi educativi, le sue aspettative professionali nei confronti dei bambini e dei genitori stranieri. Dall’altra richiede competenze relazionali e comunicative che gli permettano di non colonizzare o etnicizzare l’altro, ma di costruire contesti comunicativi dove l’inatteso, l’imprevisto diventa elemento quotidiano e non l’eccezione.