Primi quindici giorni di gennaio 2004: ennesima missione in Bielorussia (la quarantesima o giù di lì). Soliti incontri istituzionali, soliti volti, solita burocrazia, La gioia degli incontri, il freddo pungente, Minsk, Gomel, Dobrush, Mogilev, i brindisi, il Natale ortodosso, l’ovatta della neve. Tutto nella norma. Solo un piccolo tarlo mi accompagna nelle ultime missioni. Più passa il tempo e più mi sento umile. La spocchia presuntuosa dei primi viaggi è sostituita dalla convinzione che ancora molto ho da conoscere e scoprire, nonostante il possesso della lingua e le gestioni quotidiane in piena autonomia. Chernobyl (il suo dramma) a volte mi accompagna come una presenza inquieta, a volte svanisce in una nuvola surreale, Eppure è tutto vero: i controlli di polizia per entrare a Dubovy Log, villaggio abitato con radioattività variabile da 17 a 40 Ci/kmq; i suoi scolari in procinto di partire per il Mar Nero per un obbligatorio periodo di risanamento; il kolchoz che alleva bestiame radioattivo, che produce latte radioattivo, che coltiva campi radioattivi; la gente che mangia i funghi raccolti nei boschi radioattivi, che si scalda producendo cenere radioattiva. Tutto reale, tutto drammaticamente visibile, tutto (purtroppo) legittimante gli sforzi del progetto Humus e la concretezza dei suoi interventi. Ma il tarlo rimane. Chernobyl ormai è entrata nella vita della nazione e rischia di diventare una normale ed abituale presenza quotidiana. A volte tutto sembra paradossale: sì, un vero paradosso, Eccolo il tarlo, forse ho capito, ha un nome:
Tutte le contraddizioni, tutti gli interventi, tutte le progettualità sono regolati dal . Da una parte la necessità di agire per minimizzare il più possibile le conseguenze nefaste dell’incidente nucleare sull?uomo, sulla natura e nella società ; dall’altra la necessità di continuare a vivere "oltre Chernobyl" e di non essere schiacciati dalla cultura della "radiofobia", fino a giungere agli estremi della rimozione.
Entrambe le posizioni, legittime, difficilmente trovano una conciliazione e vengono utilizzate ed estremizzate per usufruire delle opportunità che, paradossalmente, vengono estrapolate dal dramma di Chernobyl.
E così, in questo scenario, si inseriscono i progetti dell’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) che maschera con progetti pseudo umanitari e/o pseudo scientifici il vero obiettivo di dimostrare, pro domo sua, la scarsa rilevanza della contaminazione radioattiva, diversi e consistenti progetti internazionali con buona parte del budget destinato a pagare i ricercatori e le strutture organizzative, interventi basati sull’enfatizzazione e sul pietismo per legittimare il circolo continuo della solidarietà , degli aiuti umanitari e tutti gli interventi di piccolo cabotaggio ad essi connessi. L’indotto "scientifico" ed "umanitario" di Chernobyl è consistente: dalla fabbricazione di preparati vitaminici "miracolosi" all’occasione per viaggi e meeting all’estero, dal ruolo di interprete a quello di accompagnatore/autista per le migliaia di famiglie straniere che si recano a visitare i "propri" bambini di Chernobyl, dai voli charter alle cicliche carovane della solidarietà , dalla ristrutturazione di colonie all’adozione di ospedali e così via.
Nulla di anormale, nulla di scandaloso o scandalizzante: tutto rientra nella normale amministrazione di un dramma che ha lasciato, presenta e conserverà a lungo i segni della tragedia sui territori interessati dall’esplosione nucleare del 26 aprile 1986. A volte tutto ciò rappresenta, giocoforza, un percorso obbligato ed inevitabile per avvicinarsi e conoscere una realtà così complessa; altre volte il primo passo per il coinvolgimento ed un impegno maggiore.
Ma fra questi due estremi (la minimizzazione del rischio radioattivo e l’accentuazione della radiofobia) ed il conseguente corollario vi è la quotidianità della gente comune, immersa (non solo metaforicamente) nella tragedia di Chernobyl e che, schiacciata da una difficile situazione economica, deve dare un senso alla propria dignità umana e ad un futuro possibile in una realtà pervasa dal .
E così Chernobyl, il suo "indotto", la possibilità (alcune volte necessità ) di speculare sulla tragedia, diventano il punto di riferimento di una umanità oppressa dal retaggio dell’assistenzialismo sovietico, dalla mancanza di prospettive di riscatto sociale, da illusorie vie di fuga (alcolismo), ma soprattutto esausta di perseguire, nelle zone contaminate, linee di condotta impostate sulla politica dell’interdizione.
E in questo paradosso ci sono anch’io e tutti coloro che cercano di intervenire in questa realtà .
E, allora, scandaloso diventa non tenerne conto: senza pregiudizi, giudizi e moralismi.
mette sull’avviso che bisogna, pian piano, uscire dalla palude degli aiuti umanitari generalizzati, dall’enfatizzare la politica dell’assistenzialismo che di esso si nutre.
Bisogna cominciare (ed abituarsi) a considerare i beneficiari degli interventi come normali interlocutori, mettersi con umiltà nei loro panni, prendere conoscenza della loro realtà culturale, sociale e statale, attrezzarsi a tempi lunghi e ad azioni defatiganti superando l’ottica dell’immediato, ma afinalistico aiuto umanitario indifferenziato, coinvolgerli attivamente nei processi decisionali dove ognuno con pari dignità si confronta e mette a disposizione le proprie risorse, porre alla base del proprio intervento una progettualità con condivisione bilaterale di parametri oggettivi (obiettivi, tappe, accordi, controlli, ecc.). E, soprattutto, che ogni progetto sappia confrontarsi su due elementi fondamentali: . Senza questi due parametri tutte le azioni, i progetti (quando non legittimati da un’urgenza effettiva o dall’inevitabile fase propedeutica che sta alla base ed è il motore iniziale dei rapporti di solidarietà ) sono forme mascherate di assistenzialismo o di (più o meno reciproca) autocelebrazione ed autogiustificazione e, pertanto, destinati, nel tempo, a fallire. è necessario in Bielorussia (ma anche in Ucraina, Russia, Moldova) ragionare sull’impatto sociale ed economico dell’intervento proposto, consapevoli che creare piccole possibilità di investimento non solo ne garantiscono la sostenibilità e la riproducibilità , ma incominciano a sgretolare il per sostituirlo con progettualità locali.
Altro passo per diminuire le conseguenze sociali negative del è raccordare direttamente gli interventi agli obiettivi: non tutto è Chernobyl. Chernobyl è, soprattutto, rischio alimentare e rischio sanitario. Tutto ciò che ruota attorno può contestualizzare e drammatizzarne gli aspetti od esserne una conseguenza più o meno diretta. è importante non dimenticarlo, non per non intervenire in altri settori (povertà , internati, scuole, campi lavoro, corsi avviamento professionale, politiche sociali), ma per rendere più precisi i campi di azione, senza speculazioni e con minori compromessi e con la certezza di risultati più efficaci e pertinenti (per tutti i tipi di intervento).
si insinua maggiormente nell’indeterminatezza, nella confusione ed esalta le proprie contraddizioni confondendo ancor più l’assistenzialismo puro con la necessità della giustificazione di Chernobyl e delle sue tematiche.
Ora ho capito quale era il tarlo che mi perseguitava. Voleva riferirsi proprio a me e farmi presente che, seppur il progetto Humus è entrato in una fase cruciale del proprio percorso, la sfida vera non è solo la concretezza operativa del progetto (quale la costruzione delle serre), quanto piuttosto la realizzazione di presupposti che possano inserire, all’interno delle pieghe del , il cuneo di una partecipazione attiva che continui non solo "oltre Chernobyl", ma oltre lo stesso progetto Humus. A Dubovy Log (sede del progetto) la serra e tutti gli interventi del progetto Humus, non devono diventare una cattedrale nel deserto, ma un elemento di crescita per gli abitanti del villaggio e, soprattutto, strumenti per reciproche opportunità : per loro perché non siano perseguitati , dalle sue apatie e dai suoi atteggiamenti speculativi, ma, pur tra tutte le difficoltà , trovino gli strumenti e le motivazioni per gestire attivamente ed in prima persona il proprio presente e dotarsi di prospettive per il futuro; per noi per riflettere maggiormente su un dramma che ci ha sfiorato, ma che incombe ancora e che ci impone (con le minacce del nucleare bellico e con il ricordo delle vittime del nucleare civile) l’obiettivo etico di contribuire alla determinazione di un migliore assetto e progresso mondiale.
Massimo Bonfatti
P.S: