Senza titolo

Quando le Nazioni Unite approvarono la Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia, il 20 novembre 1989, non ci fu bisogno di votare: fu un’acclamazione unanime. La Convenzione era scritta in arabo, cinese, francese, inglese, russo e spagnolo: l’intero mondo stringeva un unico patto, una grande promessa verso i suoi figli più piccoli. E tutti i Paesi, poi, la ratificarono.
Quella data del 20 novembre si celebra ancora, anno dopo anno; oggi è appunto la "Giornata internazionale del Bambino". Una festa? In certo modo sì, se l’occasione di rileggere il testo della Convenzione rinfresca una coscienza universale così sollecita verso la vita, verso la gioia, verso la protezione dei bambini, verso la loro felicità . Quasi a sigillare nel diritto l’obbligazione doverosa che trent’anni prima l’Onu aveva enunciato nel Preambolo di una Dichiarazione universale: "L’umanità  ha il dovere di dare ai bambini il meglio di se stessa". E il meglio ora sta scritto nel catalogo dei diritti che parlano della vita, della libertà , della dignità , della famiglia, della salute, del sostentamento, dell’educazione e della conoscenza, del gioco, del riposo, del soccorso e della "speciale protezione", e insomma di tutto ciò che fa vita la vita; e che peraltro neppure basta se non si iscrive in un orizzonte esterno, come il diritto di crescere in "un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità , amore e comprensione".
Ma appena l’occhio trascorre dal mondo dei patti e delle norme al mondo della realtà  la voglia di festa scompare, perché la promessa di 14 anni fa è stata largamente tradita. Un bambino su quattro vive in povertà  estrema, uno su 12 muore prima di aver compiuto 5 anni, 200 milioni lavorano e sono sfruttati, 120 milioni non hanno mai visto una scuola, e l’infamia della prostituzione recluta e rapisce ogni anno un milione di piccoli schiavi. E dire che la Convenzione del 1989 non è la stessa cosa della Dichiarazione universale di 30 anni prima, pur di altissimo valore et ico; è un vero e proprio Trattato, e nei Paesi che l’hanno ratificato (tutti) è legge, è norma interna. E la violazione della norma si chiama ingiustizia, si chiama torto, si chiama delitto. C’è da avvampare di vergogna e di rimorso, se anche usiamo soltanto la spanna più corta della legge a misurare la violazione dei diritti umani più elementari verso un esercito di bambini dalla vita torturata e disperata.
Perchè in realtà  la spanna della legge, la sua temperatura, non si contenterebbe di levare le infamie; il diritto vuole di più, il diritto ha arrischiato per l’infanzia parole grandi e tremende come la felicità , come l’amore. Vi sono tragedie riflesse che spezzano il diritto dei bambini anche senza diretta intenzione. Nessuno getta bombe su una città  allo scopo di massacrare i bambini, ma sotto le macerie si vedono i corpicini dilaniati dell’innocenza crocifissa. Nel quotidiano, i conflitti familiari e il disamore e gli epiloghi della disgregazione non cercano l’infelicità  dei figli; però la procurano. Il mondo adulto indaffarato, insonne o sonnambulo, il mondo dello scambio, del business e dell’autorealizzazione, che non sciupa tempo per i gesti dell’amore, consegna ai propri bambini la peggiore delle povertà .
Il 20 novembre è anche un giorno di rendiconto. Non per disperare, ma per guardare i bambini negli occhi e finalmente "vederli". Non sono loro gli incompatibili col nostro dannato mondo, siamo noi che rendiamo impossibili i loro diritti. Ma è nella loro esistenza l’invocata ragione di raddrizzare la nostra stessa vita, per noi; ci salveranno i bambini: è esattamente perché ci sono i bambini che il mondo deve cambiare.

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