All’improvviso, buio… passano i secondi e non succede niente. All’improvviso, giunge di corsa un uomo vestito di bianco, gli abiti logori, il viso scavato da indecifrabili sensazioni interne. Si mette in un angolo, è appena illuminato da una flebile luce, mentre riecheggia la registrazione di una voce, che evoca imprecisati precipizi dell’anima, demoni della perversione e abissi in cui sprofondare.
Poi è di nuovo buio e l’uomo vestito di bianco si sdraia a terra, a pancia sotto.
Una luce gialla lo illumina, si alza e comincia a biascicare racconti, che sembrano provenire dal profondo della memoria sofferente dell’umanità . Parla, parla e parla. Si muove in avanti e indietro, è difficile capire di cosa parla, che cosa vuole da noi lì convenuti. Non trova il respiro, manifesta un’ansia e un’angoscia che gli impediscono di comunicare come forse vorrebbe.
Comincia così il viaggio-riflessione di Massimiliano Carrisi intorno alla follia e all’identità negata.
L’uomo in scena è giunto dal nulla, non si capisce da dove sia arrivato, anzi se è lui che è giunto a noi oppure se siamo noi che siamo stati catapultati nel suo spazio.
Non si capisce se sia un uomo reale, un fantasma, un’anima in cerca di pace.
Siamo di fronte ad un folle, a un carcerato in attesa di giudizio, ad un condannato a morte o ad un innocente sacrificato?
I suoi abiti bianchi e la sua apparente inappartenenza all’umanità lo mostrano ai nostri occhi come una figura della liminalità , al margine tra vita reale e sogno, tra incubo e sofferenza carnale. è fuggito dall’oltretomba o è stato inviato come messaggero all’umanità ?
All?improvviso, egli apre con le mani uno spiraglio nello spazio, si affaccia dall’altra parte e sembra volerci condurre in un’altra dimensione, dove ci mostrerà la tragedia della vita di un uomo. Alla fine della rappresentazione, richiuderà quel varco e lascerà il corpo dell’uomo esausto ed inerte a terra. è come se fosse uno spirito soprannaturale, che si incarna per quasi un’ora in un uomo recluso in una cella: fa parlare quella sofferenza umana, fatta di perversione, di cattiveria e di destino inevitabile.
E l’uomo racconta, ma non è lui che parla: è animato da dentro da una forza superiore, che vuole mostrarci l’orlo del precipizio.
All’improvviso, lo spettatore si trova in una cella di un manicomio o di un carcere, una cella d’isolamento, in cui il di Massimiliano Carrisi rotola, deflagra e si ricompone in continuazione, nei limiti di uno spazio molto ristretto.
In un vibrante crescendo di follia, l’attore rivive alcuni tra i più straordinari racconti del terrore di Edgar Allan Poe, da a , da a , fino a , in un’unica maratona di ossessioni distruttive, giochi di specchi e rimandi, straordinariamente sottolineati da variazioni del tono di voce e della postura del corpo.
Nelle sue note di regia, Carrisi scrive che .
Carrisi setaccia a fondo Poe e ne estrae il mondo di nevrosi, ossessioni, allucinazioni, che contraddistinguono molti dei suoi personaggi.
Il regista-attore afferma che il riferimento principale del proprio lavoro di attore è il teatro della crudeltà di Artaud. In effetti, il lavoro sui testi di Poe, sul proprio corpo d’attore e la riflessione sulla condizione umana sofferente nella follia rimandano direttamente alla lezione di Artaud. La ricerca e la sperimentazione presentata da Carrisi riprendono nel senso più autentico la "crudeltà " artaudiana.
Artaud scriveva nel suo famoso che
In altre parole, crudeltà significa andare al fondo delle cose, cercare la verita: Artaud diceva che .
Anche Artaud si confrontò con Edgar Allan Poe, quando si cimentò nella traduzione letteraria. Era il momento dell’internamento manicomiale di Artaud, in cui, per al Potere che lo aveva segregato ingiustamente, cerco l’appiglio e l’approdo in alcuni autori ingiustamente emarginati.
Poe scrisse in una lettera del 1848, un anno prima della sua morte: .
Non a caso, da lì a poco, proprio nel momento in cui la febbre cerebrale di cui soffriva diveniva più intollerabile, dedicò il poema in prosa
.
Massimiliano Carrisi giunge a tutto ciò, nel suo percorso di ricerca e sperimentazione attorno ad Edgar Allan Poe, nella metodologia della crudeltà di Artaud: il suo spettacolo va fruito a pelle, piuttosto che di testa.
Edgar Allan Poe è in realtà uno spirito di collera, di rivendicazione e furore, un sobillatore della percezione e del linguaggio. Carrisi si è reso conto che leggere l’opera di un poeta è prima di tutto leggere attraverso: ecco lo spirito sovrannaturale che appare all?improvviso e si intrufola dentro un corpo d’attore.
La ricerca di Carrisi pone al centro la nozione antropologica di alterità , individuando nel confronto con l’altro il nucleo esistenziale ed artistico del percorso stesso.
Il personaggio interpretato sulla scena da Carrisi si confronta e si scontra per tutta la sua vita con l’, che diviene scopo e obiettivo del suo esistere. L’ è incarnato anche da quel potere che vorrebbe annullare le diversità , quel potere che cerca di distruggerlo nella sua unica ed inimitabile diversità .
In tal modo, Carrisi penetra dall’altra parte, nei territori del doppio, affronta il rischio della perdita, del crollo, lo sprofondamento nella notte della follia. Ma il percorso si trasforma invece in un passaggio, si rivela l’esplorazione dell’ignoto in sè, per un’emersione finalmente rinnovata, la neogenesi.
Ed infine ci mostra che la follia non è necessariamente un crollo, può essere anche uno squarcio: può essere liberazione e rinnovamento così come schiavitù e morte esistenziale.
Nel parlare di omicidi efferati ed immotivati, l’uomo vestito di bianco, nel momento in cui si sofferma sulle proprie vittime, scopre l’immagine di se stesso, il doppio. Solo quando ha eliminato quello che appariva un perturbante, scopre la mancanza e l’assenza. Ciò lo porta a ricercare nuove immagini di sè da rifiutare e da recuperare dopo averle mandate in frantumi. La sua può essere una scelta, la scelta di tuffarsi , parola dell’uomo vestito di bianco (Wilson) e resta soltanto allo spettatore credergli o no. Per l’uomo-imprigionato, il palcoscenico teatrale è l’occasione di rinascere, altro e se stesso,soggetto di una storia mitica innervata alle pulsazioni della vita. Il palcoscenico è , perché vi si espone la messa in scena della riconquista di sè in una nuova espressione corporea di forte vocalità , il rifiuto di tacere, la seconda nascita.
Carrisi trasporta lo spettatore in un universo quasi sconosciuto e piacevolmente intrattiene, "costringendoci" a fare i conti con quella parte di noi stessi più vergognosa, più proibita, più degenerata; quella parte che gestiamo socialmente e che nei momenti difficili può deflagrare in maniera drammatica. Il suo è uno sguardo sulla diversità , che, senza moralismi e giudizi, rappresenta il nero e il bianco, il buono e il cattivo di ciascuno di noi. Ci costringe a non emettere giudizi definitivi sugli altri, prima di aver provato a mettersi negli stessi panni.
Carrisi annota che Poe prefigura .
Il teatro diviene allora momento di riflessione personale e collettiva sul divenire della società moderna: in tal senso, Carrisi ci provoca e ci propone con il suo spettacolo un nuovo modello di .