Senza titolo

Si vede ancora bene nel parco dell’ex manicomio di Trieste il murale "La libertà  è terapeutica" disegnato dal pittore Ugo Guarino in un pomeriggio d’estate del 1973, quando l’èquipe di Franco Basaglia cominciava ad affrontare un’istituzione di mille duecento internati. In questi trent’anni quell’affermazione ha guadagnato credito nella letteratura scientifica. Eppure le libertà  delle persone malate di mente, i loro diritti umani sono ancora un grande problema, dappertutto, anche nelle cosiddette democrazie sviluppate. Lo ribadiva qualche giorno fa a Ginevra Larry Gostin, professore di legge alla università  di Georgetown (Washington ), durante i tre giorni di conferenza su diritti umani e legislazioni di salute mentale promossa dalla Organizzazione Mondiale della Sanità , con l’intento di offrire consulenza ai paesi che devono rivedere le proprie legislazioni per essere ammessi "a pieno titolo" in quel mondo globale di cui sono già  parte.

Per mettere sui piedi giusti la questione del rapporto tra democrazia e manicomio, per riuscire a vedere gli interrogativi e le prospettive che si aprono, da questo angolo di visuale, per una politica che voglia fare democrazia partirà  da un episodio documentato in un trattato inglese di storia della psichiatria e raccontato da Klaus Dèrner (Il borghese e il folle, Laterza, 1975).

Siamo a Londra nel 1815, nel corso della Parliamentary Inquiry into Madhouses, la prima inchiesta parlamentare che guarda ai folli nell’ottica liberale dei diritti, un po’ la madre di tutte le inchieste parlamentari che hanno ciclicamente testimoniato gli abusi della psichiatria nei regimi liberal-democratici (in Italia l’ultima di queste inchieste si è svolta nel 1997).

Per due anni una commissione visita varie istituzioni pubbliche e private. Al Bedlam, il grande manicomio di Londra, i commissari incontrano il medico Thomas Monro, che è anche proprietario e gestore di una casa di cura privata. Alla domanda sul perché al Bedlam egli faccia ampio uso di catene e ceppi, che invece non esistono nella sua casa di cura, Monro risponde che nella sua clinica c’è tanto personale che non vi è occasione di usare la costrizione: ho quaranta e più pazienti e altrettanti inservienti."Ma i commissari vogliono saperne di più su questi mezzi di coercizione, sulla loro utilità . Essi sono adatti solo per i folli poveri – precisa Monro – un gentleman non apprezzerebbe di essere messo in catene. Io stesso, peraltro, non sono abituato a un gentleman in catene, non ho mai visto una cosa del genere, e ciò è talmente orrendo per la mia sensibilità  che non lo ho mai considerato necessario".

Ci sono diversi elementi in questa vicenda che è quasi una parabola. Dèrner la cita per dimostrare un dato storico ormai acquisito: il grande manicomio pubblico è nato per internare i "pauper lunatics", la "marginalità  improduttiva" per dirla con Franco Basaglia, destinataria per ciò stesso di un trattamento diverso rispetto al folle ricco, al gentleman, o al buerger, al citoyen, come già  all’epoca si cominciava a dire nell’Europa continentale. Ma questo è tutto sommato l’elemento più inattuale di questo episodio. Nel secolo appena passato, infatti, anche il gentleman e il cittadino hanno conosciuto le catene psichiatriche, sia in quanto anche i poveri sono diventati cittadini, sia perché i ceti produttivi, classi medie incluse, hanno cominciato ad attraversare i circuiti manicomiali, sperimentando così quell’intreccio tra cura e custodia inventato per la prima volta dalla legge psichiatrica francese del 1838.

Il cittadino "in catene" non perché reo ma perché malato è diventata così una contraddizione delle democrazie. Nella maggior parte dei casi (penso ai paesi europei e agli Stati Uniti) essa viene ammessa all’interno di legislazioni "speciali", che costruiscono cioè regimi eccezionali per il malato di mente e per lo psichiatra. A quest’ultimo è consentita la compressione di alcuni diritti del cittadino in nome della cura, ma di converso lo psichiatra è obbligato a farsi carico della difesa della società  dal potenziale pericolo costituito dal malato di mente. Questo è, in estrema sintesi, il paradigma dell’internamento, più volte e in vari modi "corretto" dalle legislazioni a partire dal secondo dopoguerra, con gli obiettivi di renderne l’impiego eccezionale, di restringere i suoi ambiti di applicazione e di controllare ex-post, ed eventualmente sanzionare, eccessi e abusi. Tutto questo ha prodotto costruzioni giuridiche complesse e non sempre maneggevoli, che possono dare molto lavoro a giudici, avvocati e assicurazioni (è sopratutto il caso degli Stati Uniti) ma che non sembrano capaci di eliminare, nè di rendere eccezionale, questa che rimane appunto una contraddizione dei regimi democratici : il cittadino "in catene" non perché reo ma perché malato.

Neanche la riforma italiana, che pure ha tagliato alle radici il paradigma asilare è riuscita a far uscire di scena la contenzione e la segregazione psichiatriche: in molti servizi psichiatrici di diagnosi e cura e nelle più segrete case di cura private possiamo trovare porte chiuse, grate, letti di contenzione, sequestro di oggetti personali, uso aggressivo di psicofarmaci tipo "camicia di forza chimica", insomma forme di offesa ai diritti e alla dignità , che gravano sia sulle persone in trattamento obbligatorio che sui ricoverati volontari.

Perchè questo accade, di che cosa è segno? Si tratta di un fenomeno residuale, destinato a scomparire, o di una tendenza strutturale che rimanda a contraddizioni di fondo della democrazia oltre che dell’istituzione psichiatrica?

Per cercare di capirlo torniamo di nuovo alla "parabola" inglese e a una seconda pista di ragionamento che essa apre.

Il medico Monro rifiuta a priori l’idea che si possa mettere in catene un gentleman, anzi trova aberrante la sola ipotesi. Di fronte all’insistenza dei commissari, si colloca immediatamente dalla parte del gentleman folle, o meglio, sapendosi collocato nello stesso gruppo sociale, partecipe del medesimo sistema di valori, può capire, e lo fa notare immediatamente ai suoi interlocutori, che il gentleman in questione si irriterebbe ancora di più nel caso di una simile violazione della propria dignità : la contenzione, argomenta Monro, in questo caso si rivelerebbe controproducente. è per questo che neppure gli viene in mente che una tale misura possa essere considerata necessaria. Per far fronte al gentleman folle, immaginiamo resistente al ricovero, magari agitato e forse rissoso, il dottor Monro dovrà  dunque trovare qualche altra cosa che non siano i ceppi e le catene del manicomio.

Franco Basaglia è partito, in fondo, da un’attitudine analoga, cioè da una spinta squisitamente etico-politica. Questa spinta gli ha fatto percepire come aberrante il manicomio e lo ha costretto a cercare altre strade, per affrontare da medico e non da carceriere la sofferenza delle persone che gli erano affidate.

L’etica di Basaglia è evidentemente diversa da quella di Monro, che si muove alle origini del mondo liberale. Qui il solo cittadino è il maschio borghese benestante, titolare esclusivo di quello che Beccaria chiamava "l terribile e forse non necessario diritto", il diritto di proprietà . Siamo infatti alle prime fasi di formazione di quel complesso di diritti che fanno la cittadinanza. Da essa sono esclusi i non proprietari, che poi entreranno nel novero dei cittadini se provvisti di istruzione, mentre solo col primo novecento si arriverà  a discutere di universalità  della cittadinanza politica, universalità  chiusa nell’orizzonte maschile però, poiché solo assai più tardi – da noi con il secondo dopoguerra – anche le donne saranno cittadine, e per molto tempo non a pieno titolo.

Così, nello spirito dell’epoca, il medico Monro ha interiorizzato i diritti del gentleman ma non quelli dei poveri. Nè si può dire che i commissari del parlamento inglese pongano sullo stesso piano poveri e gentlemen. L’inchiesta di cui parliamo, come tutte le inchieste parlamentari che hanno segnato la vita dei manicomi, nasce in realtà  per tamponare fatti scandalosi di dominio pubblico: nel caso in questione, l’inchiesta si deve al Retreat di York, al relativo successo politico del suo ideologo Samuel Tuke, nipote del fondatore, alle denuncie dei quaccheri e dei gruppi riformatori. La politica, in realtà , adotta e adotterà , verso i diritti degli internati e verso i doveri degli psichiatri, un atteggiamento perlomeno ambivalente. Tanto è vero che, quando si tratterà  di legiferare sull’assistenza dei malati di mente, vincerà  il paradigma dell’internamento, che costruisce tra lo Stato e il corpo medico l’ambiguo patto sulla cura-custodia che abbiamo visto. Dentro questo patto, com’è noto, si svilupperà  il sapere psichiatrico, sperimentato sui corpi dei poveri consegnati ai medici, i quali saranno ciclicamente accusati di perpetrare abusi e di essere inefficaci ma saranno, al fondo, sempre confermati nel mandato alla difesa sociale, che definisce inequivocabilmente l’etica politica corretta per lo psichiatra pubblico del mondo liberale.

Arriviamo così alle democrazie del dopoguerra e alle masse di cittadini in catene, costose in denaro e in legittimità  democratica, anche perché nel frattempo vanno facendosi strada i diritti sociali, e tra questi quelli alla salute.

Basaglia, lo racconterà  lui stesso in un testo ancora forte e attuale, Crimini di pace (Einaudi, 1975), è tra coloro che "usciti dalla guerra ( credono) di poter costruire, contribuendo ciascuno nel proprio settore, un mondo diverso da quello contro cui si era lottato". Ma "questa speranza ha vita breve" se è vero che anche "l’intellettuale o il tecnico militante nei partiti di sinistra svolge una pratica professionale di segno opposto alla sua attività  politica. Ingegnere in fabbrica, medico d’ospedale, giudice, psichiatra in manicomio, insegnante, ciascuno conferma, con la propria pratica professionale, ciò che altrove nega".

L’impatto con il manicomio di Gorizia nel 1962 è per Basaglia rivelatore degli esiti terribili a cui questa doppiezza può portare. "Quell’enorme letamaio che era il manicomio", lo racconta in un testo degli anni `70, La giustizia che punisce (Einaudi, 1982), gli fa venire in mente la prigione in cui era stato da studente antifascista, "l’odore di morte" e il senso di oppressione che allora aveva vissuto, e l’essere, questa volta, "dalla parte del carceriere" non gli impedisce di riconoscersi in "quell’uomo che aveva perso ogni qualifica umana, acquisendo lo stampo e l’impronta dell’istituzione".

Parte da qui, da questo passaggio etico, politico e anche emozionale, il percorso che porterà  Basaglia a sperimentare un sistema di servizi che fa a meno del manicomio e dei suoi strumenti. C’è dunque un nesso molto stretto, che nel caso italiano è particolarmente esplicito, tra spinta etica e innovazione della struttura e della cultura dell’intervento terapeutico in psichiatria. Una spinta etica necessariamente non priva di aggettivi: provocando qualche scandalo e non poco fastidio, Basaglia vorrà  chiamare psichiatria democratica il movimento che si organizza per la riforma, intendendo con questo aggettivo che si trattava di costruire una psichiatria che interiorizzasse e facesse vivere i principi del patto costituzionale democratico, così come la psichiatria asilare si era sviluppata nel quadro di uno Stato liberale che escludeva dalla cittadinanza più di "metà  del cielo".

C’è dunque un gioco interessante tra scienza e politica all’origine della psichiatria e delle sue istruzioni. Lo vediamo tanto nelle parole di Monro come in quelle di Basaglia, il quale restituisce la palla alla politica, per così dire, quando dimostra che "si può curare la persona che soffre in un altro modo" e che dunque l’eccezione alle regole della democrazia non è più il triste ma (a volte) necessario prezzo da pagare alla cura.

Arriviamo così alla "legge 180" e alla scelta della democrazia italiana di non privare più della cittadinanza le persone malate di mente.

A questo punto lo scenario cambia. Tutta la psichiatria deve diventare "democratica", e l’intero sistema delle istituzioni pubbliche deve diventare partecipe di questa trasformazione, che deve raggiungere anche le strutture della vita sociale.

L’attenzione dei partecipanti alla conferenza di Ginevra era ovviamente puntata su questa fase dell’esperienza italiana. Oggi è infatti chiaro se non a tutti certo a molti che è perfettamente possibile coniugare cura e rispetto dei diritti della persona che sta male, anche nei casi più gravi. Ma è possibile, e a quali condizioni, trasferire questo dato sul terreno delle politiche pubbliche? è possibile cioè passare dall’avere, in un dato paese, bravi psichiatri che fanno le cose giuste (per il bene di chi riesce, per fortuna o per denaro, a raggiungerli) al costruire, in quello stesso paese, una "classe" di operatori e un sistema di servizi orientati sull’interesse pubblico a curare tutti i cittadini nel rispetto dei loro diritti?

Questa è al fondo la scommessa che "la 180" e la democrazia italiana non hanno vinto ma neppure perso. In Italia infatti si sono radicati, in molte regioni, anche del Sud, sistemi locali di salute mentale che fanno a meno del manicomio e dei suoi succedanei, e che hanno innescato processi a catena di trasformazione di altri settori pubblici (aree della sanità , della magistratura e della polizia ad esempio) e di qualche spazio della vita sociale (nel lavoro, nelle convivenze, nella scuola, nell’informazione). Questo è il fare democrazia che richiede una politica che non rinuncia a trasformare la realtà  che è chiamata ad amministrare, e una classe di "tecnici del sapere pratico", per dirla con una definizione di Sartre che Basaglia amava, che non si pretendono neutri o irresponsabili rispetto alla società  in cui operano. Ma è anche il paradosso di oggi: questo fare democrazia, che pure ha cambiato pezzi importanti di società , sembra non riuscire a varcare lo spazio del locale e dello specifico, come se ci fosse una specie di "soffitto di cristallo" invisibile e duro come quello che impedisce alle donne l’accesso ai livelli alti del potere.

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