Senza titolo

"Sono uscita di casa, potevano es-sere circa le nove, e mi sono recata al lavoro a piedi. Era passato da due giorni il mio ventiquattresimo compleanno, mi sentivo benissimo, era una meravigliosa giornata d’autun-no e non avevo altro per la testa che godere la luce del mattino".
Incomincia così, nei ricordi di Dawn, l’11 settembre 2001. Suo fratello, due anni più vecchio di lei, era già  al lavoro. In una delle Torri Gemelle.
"Ho visto del fumo, ma in una città  come New York è abbastanza nor-male e non ci ho fatto caso. Al lavoro ho sentito due persone parlare tra loro, chiedere una all’altra se avesse visto l’aeroplano. Ancora non sapevo cosa fosse successo. Ho avuto un presentimento e ho tentato di telefonare a mio fratello. Era forse un minuto dopo lo scop-pio. Insieme ai suoi amici e alla sua ragazza ho cercato di raggiungerlo, in tempo per vedere il secondo ae-reo abbattersi sulle due torri. Ci siamo resi immediatamente conto che non c’era nessuna possibilità  che mio fratello fosse ancora vivo. Nella sua ditta lavoravano 700 per-sone. Nessuna è sopravvissuta". Dawn Peterson, ventisei anni, newyorkese, grandi occhi sgranati su un orrore che non cessa. Dawn è insegnante universitaria di fotogra-fia e attivista di Peaceful Tomorrows, l’associazione fondata da un gruppo di familiari delle vittime dell’11 settembre per destare le co-scienze contro ogni atto di violen-za e di guerra. O per dire, quantomeno, di non strumentalizzare i propri cari per seminare dolore. "Quando una cosa come questa coinvolge una persona che ti è così vicina, che occupa un posto centrale nella tua vita e ha avuto una parte tanto importante nella tua crescita come persona, ti trovi di fronte al grossissimo problema di continuare a vivere, di dare un senso alla tua vita".

"Il giorno in cui gli Stati Uniti hanno deciso di bombardare l’Afganistan ho avuto la sensazione che il mondo non avesse imparato nulla dalla morte di mio fratello, o quanto meno non il governo americano. Mi sembra sconvolgente che si possa guardare alla morte e farne un alibi per dare altra morte. Vendicare così l’11 settembre era sbagliato due volte: perché non ha senso rispondere ad un atto di guerra con un altro atto di guerra, e perché si andavano a colpire persone innocenti, così come era innocente mio fratello".
Ma ancora i legami con i fatti dell’11 settembre sembravano consistenti e, commenta Dawn, "nonostante tutto questo attacco è sembrato in qualche modo giustificato. Quando sono iniziati i bombardamenti in Iraq, di nuovo l’attentato alle Twin Towers è stato usato come pretesto, come mezzo per scaldare gli animi e creare un senso di paura. il messaggio era: attacchiamo per non avere un altro li settembre. Da qui è nato il mio desiderio di imparare, di saperne di più, per capire fino a che punto il governo stava strumentalizzando il nome di mio fratello e di tulle le vittime. Mi è parso chiaro che l’attentato alle Torri Gemelle non avesse assolu-tamente nulla a che vedere con Saddam Hussein e con quello che accadeva in Iraq. In questo modo non c’era solo una strumentalizzazione, ma si cancellava la memoria di ciò che era successo. Con il risultato che, secondo un sondaggio, il 50% degli americani ritiene Saddam Hussein responsabile dell’11 settembre".
Questa presa di coscienza è stata, per Dawn, l’inizio di una nuova stagione di impegno.
"Rifletto sul passato e sul tempo che stiamo vivendo e in buona sostanza il risultato mi sembra sempre lo stesso, abbiamo imparato molto, disponiamo di tecnologie avanzatissime, ma non possiamo fare a meno di ucciderci l’un l’altro, non riusciamo a risolvere i conflitti in un modo che non sia violento. Credo davvero che un obiettivo di pace si realizzi solamente con mezzi pacifici, non riesco a vedere come possa essere raggiunto con la guerra. Per questo ho deciso di raccontare la mia esperienza e di testimoniare che non sono d’accordo: la guerra non è solo sbagliata, è anche inutile". Il passo successivo è stato trovare l’occasione giusta per concretizzare la propria scelta.
"Ho saputo che un gruppo di fa-miliari delle vittime aveva creato un’associazione, , e ho preso contatto. Ho incontrato molte persone come me che sentivano il bisogno di rifiutare la strumentalizzazione dei loro cari e si ispiravano all’impegno di Martin Luther King, per uscire dal circolo della violenza attraverso mezzi nonviolenti". Proprio la questione dei mezzi è per Dawn il distinguo fondamentale.
"Nel suo messaggio alla nazione del 7 ottobre 2002 il presidente Bush ha spiegato il suo modo di agire. "Come americani vogliamo la pace", ha sostenuto, "lavoriamo e ci sacrifichiamo per la pace", e ha concluso il suo discorso dicendo: "con le nostre azioni vogliamo assicurare la pace e costruire un mondo migliore". Io concordo completamente in quanto agli obiettivi, come americana sento di lavorare per la pace e per un domani migliore, l’unica differenza è sul come. Il sistema che lui adotta mi sembra profondamente sba-gliato. L’unica strada per un do-mani di pace, per me, è aprire un dialogo, coinvolgere le persone che ancora pensano alla guerra co-me soluzione di tutti i problemi".

Una delle caratteristiche di è l’attenzione che perdura oltre i tempi mediatici per comprendere che cosa avviene nelle zone di conflitto, che cosa si trasforma, come cambia la vita della gente, quali problemi ulteriori si aggiungono dopo. Con questo spirito Dawn porta l’attenzione sui danni dei conflitti armati che vanno oltre l’immediato. "Un atto di guerra ha delle conse-guenze a lungo termine che difficilmente ci vengono spiegate. Le due torri sono state colpite all’al-tezza di 104 piani, 40.000 finestre sono state infrante ed è stato liberato un migliaio di tonnellate di amianto e una quantità  enorme di piombo. Un impatto ambientale impressionante. Chi ha lavorato alla ricostruzione, oltre che all’estrazione delle vittime, ha dovuto respirare queste sostanze tossiche. Per non parlare di quanti vivevano intorno all’area colpita, o di chi si trova dove le macerie sono state trasportate e smaltite. Tutte queste persone vivono in un ambiente con un altissimo tasso di tossicità  e moltissime si sono ammalate. Per questo possiamo comprendere la situazione di quanti in Afghanistan o in Iraq subiscono la guerra e che, pur non essendo stati colpiti direttamente, ne conoscono i danni di più lunga durata". La comprensione non è solo intellettuale, passa attraverso l’incontro, il riconoscimento, l’identificazione con l’altro.
"Un gruppo di famiglie di è andato in Afganistan mentre gli Usa stavano bombardando. Qualcosa di analogo è successo con l’Iraq. Lo scopo del viaggio era stabilire legami con fa-miglie che, come le nostre, erano state colpite dai bombardamenti, che in quel caso erano stati decisi proprio dalla nostra amministrazione. Si è stabilito un legame di solidarietà  che prescinde dalle idee politiche ed è basato sull’aver subi-to lo stesso tipo di violenza".
Dawn sente che, pur nelle situa-zioni più drammatiche, essere cittadina di una grande potenza mondiale porta ancora con se qualche privilegio…
"Dopo l’11 Settembre molti ci hanno inviato delle offerte in denaro, ci hanno comunicato la loro solidarietà . In Afghanistan ci sono persone che hanno visto morire i membri delle loro famiglie e soffrono la nostra stessa situazione ma non sono trattate allo stesso modo. Uno degli obiettivi di Peaceful Tomorrows è stato far sì che il governo degli Stati Uniti stanziasse i soldi promessi per la ricostruzione in Afghanistan, il che è avvenuto con oltre un anno di ritardo". Un altro tema importante è quello della memoria.
"Io ho perso mio fratello ma quando ho cominciato a parlare ho trovato tante persone disposte ad ascoltarmi. Nel mondo ci sono molte persone come me che han-no vissuto la stessa tragedia ma non sono ascoltate, non hanno la possibilità  di parlare della loro esperienza. Sappiamo tutto di cosa è successo l’11 Settembre, conosciamo il numero esatto e i nomi delle vittime, ma a pochi importa conoscere le vittime dell’Afghanistan. Sul sito dell’associazione () pubblichiamo i docu-menti di un nostro osservatorio, c’è il numero delle persone uccise e ci sono informazioni sul loro conto, perché ogni vita ha lo stesso valore, la stessa dignità ".
Per molte strade, e nell’incontro con altri, l’esperienza più dolorosa viene trasformata e diventa occasione di conoscenza, di condivisione, di costruzione.
"Io so che non potrà  più vedere mio fratello, parlare con lui, ridere con lui, sederci a tavola insieme. L’unica cosa che mi sembra avere senso", conclude Dawn, "è usare la coscienza di questa esperienza per far capire alle persone quanto inutile sia una guerra. Quanto inu-tili siano tutti gli atti di guerra".

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *