LA FOLLIA VA IN SCENA SENZA ALCUNA FINZIONE

Dario D’Ambrosi e il lavoro sulle patologie mentali: un binomio inscindibile e unico nel panorama teatrale italiano che, per quanto riguarda questo autore, attore e regista milanese, ha radici negli anni passati: dopo aver frequentato una scuola di recitazione, D’Ambrosi decide di passare alcuni mesi in una struttura psichiatrica. Poi fondò un gruppo con suo nome dedicato ai problemi mentali, giungendo alla fondazione del Teatro Patologico, in grado di ritagliarsi uno spazio ormai "classico" (come ad esempio il teatro carcerario).
Nei giorni scorsi Roma ha ospitato in varie sedi la produzione recente di questo "coordinatore" che della pazzia e della devianza ha fatto una ragione stilistica, esistenziale, umanitaria.
Una conferenza stampa il 16 giugno, uno spettacolo, "Cose da pazzi", il 21 giugno a Villa Maraini (che prende spunto da un caso psichiatrico di fine ‘800) e un altro lavoro in un teatro classico come il Valle, il 22 ("Il teatro sotto elettroshock" è il titolo): questo il "pacchetto" D’Ambrosi per la stagione attuale del suo teatro del disagio psichico che, fra le varie partecipazioni, ha visto nel numero presentato al Valle, la presenza di alcuni ragazzi cerebrolesi (dell’associazione di volontariato del Cavallo Bianco), di altri elementi provenienti da vari Paesi, il tutto cementato dallo Yap (Youth action for peace), organizzazione internazionale la quale, ben pochi lo sanno, è stata fondata addirittura subito dopo la Prima guerra mondiale.
"Il teatro sotto elettroshock" prende spunto da alcuni frammenti del Marat-Sade di Peter Weiss, testo celebre e celebrato, per le sue connessioni tra follia, carcerazione, potere, già  passato attraverso il film-spettacolo di Peter Brook ma anche, in tempi più recenti, rivisto dagli attori-detenuti della Compagnia della fortezza di Volterra: e il testo è per D’Ambrosi uno spunto per mettere in atto un teatro che ha sapore di sfida, di esibizione coraggiosa del soggetto patologico, condannato all’esclusione, di fronte ad una platea che, nel coinvolgimento metaforico che si attua, diviene rappresentazione dell’esterno, della normalità  giudicante, che tende alla repulsione di qualsiasi diversità  manifesta.
Ma qui il portatore della patologia è esposto, e nonostante la parte imparata reca con sè una malattia e una diversità  che non mentono, costantemente manifeste, presenti, si potrebbe dire azzeranti rispetto a tutto il resto; insomma, questo è teatro dove non si finge e, se lo si fa, si considera la finzione non come la più importante delle cose (in genere a teatro la finzione è tutto), ma come un corollario marginale nella dialettica che si instaura per la sala.
Si diceva sfida, si parlava di esibizioni: qui vince la forza della proposta del regista, qui vince parimenti la forza dei soggetti "diversi" coinvolti che hanno accettato non solo di abbandonare la penombra della casa di igiene mentale, penombra che spesso è comoda e protettiva, perché isolante, ma hanno addirittura scelto la luce abbagliante dei riflettori di scena.
A questo punto giudicare lo spettacolo secondo canoni consueti è un errore, poiché i soliti parametri condurrebbero a valutazioni formali inesatte: nel lavoro di D’Ambrosi la smagliatura ha più valore dell’oggetto definito, il silenzio e l’attesa prima di una battuta pronunziata sono la trama dello spettacolo; l’esitazione, magari il terrore di essere lì sperduti sulla scena sono molto più emozionanti di un’emozione simulata.
È un teatro che fa bene a tutti questo, e agli spettatori soprattutto, presi in un flusso che è giusto definire catartico, che magari si manifesta con le lacrime a stento trattenute.
E ci ha impressionato una delle coraggiose attrici, sul finire dello spettacolo, travolta da un movimento intimo che quasi le impediva di continuare, di manifestarsi pubblicamente: abbiamo pensato ad uno dei momenti più alti del teatro del ‘900, alla battuta di un’attrice dei "Giganti della montagna" invasa dalla paura di mostrarsi a spettatori sconosciuti e voraci.
Quella battuta, Pirandello, con la sua sensibilità  infinita, se l’era inventata, ma l’altra sera al Valle, il dramma si manifestava senza schermi o finzioni.

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