Antoine Marie Joseph Artaud nacque a Marsiglia il 4 settembre 1896: nei suoi 52 anni di vita attraversò intensamente i cambiamenti epocali del nuovo secolo. Fu testimone e vittima della nuova configurazione del potere e della costruzione dell’immagine delle nuove classi dominanti.
L’attualità di Antonin Artaud (il nome d’arte che assunse fin dalle prime prove giovanili di poeta) non è probabilmente ancora stata sottolineata a sufficienza, ma non è certamente un caso che, negli ultimi dieci anni, diversi studiosi italiani abbiano dedicato differenti saggi critici a differenti frammenti della vita e dell’opera dell’autore francese.
In effetti, l’approccio alla vicenda esistenziale ed artistica di Artaud può procedere soltanto per approssimazioni successive e ipotesi di giustapposizione e concatenazione di frammenti, diversi per tipologia e per stile. L’opera completa di Artaud non è stata ancora completamente pubblicata, malgrado l’editore Gallimard abbia dato l’avvio a tale pubblicazione quando Artaud era ancora vivo, caso più unico che raro. La traduttrice e curatrice dell’opera omnia periodicamente, dagli anni Cinquanta, dà alle stampe un nuovo voluminoso tomo di raccolta e riflessione critica intorno a pensieri, disegni, poesie, articoli, ipotesi di allestimenti teatrali, registrazioni audio, fotografie e sequenze cinematografiche. è quindi un vero e proprio scavo archeologico, che continua ininterrottamente da oltre cinquanta anni: ogni nuovo frammento che viene portato alla luce contraddice i precedenti frammenti, o meglio contraddice le dissertazioni filosofiche e le sistemazioni intellettuali definitive fino a quel momento operate nei confronti di Artaud.
Pertanto, il percorso proposto è stato impostato sulla ricerca e l’approfondimento di alcuni topos, che, a giudizio della maggior parte degli studiosi, sono emergenti rispetto al magma complessivo dell’opera e della vita di Artaud.
In tal senso, la ricerca è stata condotta ponendo al centro la nozione antropologica di alterità , individuando nel confronto con l’ il nucleo esistenziale ed artistico del percorso stesso di Artaud.
Artaud si confronta e si scontra per tutta la sua vita con l’, che diviene scopo e obiettivo del suo esistere. Per Artaud, l’ è incarnato anche da quel potere che vorrebbe annullare le diversità , quel potere che cerca di distruggerlo nella sua unica ed inimitabile diversità .
Ripercorrendo gli esiti artistici e la vita di Artaud, sempre risalta la caparbietà dell’autore francese nell’opposizione al potere istituzionale, istituzionalizzante e medicalizzante, anche quando tale potere gli toglie ciò che per lui più conta, la coscienza di se stesso, che diventa possibilità di autodeterminazione ed opportunità di incontro con l’ che è in ogni persona umana.
Molte delle avanguardie artistiche del Novecento hanno ereditato la sua lezione e, in modi diversi, l’hanno applicata, ma, ancor più l’eredità di Artaud va individuata nei cosiddetti "teatri delle diversità ". Probabilmente, Artaud è veramente attuale e vivo solo in quelle esperienze teatrali, in cui la diversità dei partecipanti è la condizione sine qua non dell’evento finale da realizzare. è il teatro del margine, della liminalità , degli emarginati di ogni tipo, della festa interculturale delle diversità .
È in tali contesti che oggi si realizza per la prima volta il "teatro della crudeltà ", quel teatro che Artaud non riuscì mai a mettere in scena, se non facendolo coincidere con il proprio corpo dilaniato e sbranato dal potere, come Dioniso o Cristo.
È in tali contesti che, finalmente, salta la dicotomia tra corpo e mente, quella che ancora oggi è uno dei fondamenti per la perpetuazione e il consolidamento del potere vigente: sui palcoscenici dei "teatri delle diversità " è la Carne che grida e gioisce.
Artaud è guida in questo cammino con il grido e la carezza, è l’opportunità di dare voce a coloro a cui non è stata mai data voce, ma è anche la possibilità per qualunque persona di mettersi in gioco con la propria specifica e peculiare diversità , senza paura di essere giudicata ed emarginata. Come insegna Artaud nella sua ultima performance radiofonica, la diversità si può cantare, giocare e gridare.
Con Artaud, si è introdotti nell’idea della pelle come interfaccia, come frontiera, come confine che separa un dentro da un fuori. Il grido prorompe dalla Carne, prima ancora della carezza: Artaud mostra la necessità del grido, prima ancora della carezza, del contatto corporeo. Per chi ha subito le più atroci manipolazioni del proprio corpo, è difficile ricominciare un percorso di autodeterminazione, a partire dal contatto fisico: Artaud non ci riesce, ma vuole essere di nuovo con l’ e lo fa imponendo il suo grido.
Nei percorsi di teatro-terapia, si utilizza più facilmente la carezza piuttosto che il grido: probabilmente, è una riscoperta del corpo, che è ancora legata a valori e stili di quel potere, che ha da sempre negato la carezza. La corporeità attuale si traduce in palestre, saune, diete, cure di bellezza, pornografia e terapie riabilitative: il sospetto è che il potere si sia già impossessato del corpo liberato dalle censure religiose e filosofiche, per incasellarlo in nuove prigioni virtuali.
Molti "teatri delle diversità ", specie quelli in cui partecipano persone con handicap mentali, psichici o psichiatrici, utilizzano la carezza, ma hanno terrore del grido: gli operatori sociali dichiarano che il proprio compito è di "contenere" la persona con disagio e che non possono permettersi di provocare reazioni non controllabili.
Scrive Mariella Combi, nel suo esaustivo saggio sul grido e la carezza: "Solo il grido, grido di dolore, che nasce dalle profondità della propria esperienza, può suggerire il senso di quanto si sta vivendo. Grido, pure di rabbia, per l’impotenza totale a modificare uno stato di fatto immutabile. Prima ancora del lamento e delle lacrime. Urlo che prorompe senza possibilità di controllo sia che si trasformi in suono, sia che rimanga nel silenzio, muto. Ma il grido turba gli altri, li rimette in contatto con le loro sofferenze, porta alla luce il dolore individuale e collettivo con le angosce e i fantasmi ad esso connessi. Forse per questo la richiesta sociale è di nasconderlo: è contagioso e innesca reazioni sociali che possono divenire incontrollabili in quanto non ritualizzate"(1) .
Quanto afferma Combi coincide con quanto emerge dalla collazione dei frammenti di Artaud, che porta a conclusione l’ipotesi del grido come centro del percorso artaudiano, un grido che rompe e attraversa lo specchio, un grido che, deflagrando dal profondo della carne, non teme il confronto con l’alterità annidata in ciascuna persona umana.
"Il grido acquista pure il ruolo di prototipo della domanda e di prova della sofferenza che sollecita nell’altro il riapparire del ricordo delle sue esigenze e delle sue esperienze dolorose. La memoria del già vissuto innesca meccanismi di disponibilità alla comprensione di quanto sta comunicando l’altro: memoria del dolore condiviso a partire dal bisogno e dalla frustrazione che strutturano la potenzialità dello scambio comunicativo.
[…]Il grido richiede sempre una risposta immediata e urgente: non c’è tempo da perdere, non prevede il rinvio ed esige una vicinanza spaziale. Sospende momentaneamente, in particolare quando è raccolto, il percorso dell’individuo e del sistema: sollecita un attimo di riflessione per la decodifica all’interno del coinvolgimento che crea. Che sia acuto, rauco, soffocato, assordante, stridulo o inarticolato il grido è una forma di relazione che si stabilisce fra dentro e fuori come pure fra singolo e ambiente"(2).
È significativo che un intellettuale come lo è stato Artaud giunga al termine della sua esistenza a de-comporre le parole, a farle esplodere in suoni senza senso, a cercare un linguaggio per tutti.
Combi annota: "La parola è importante nel riconoscimento: non è la presenza della parola in sè, ma il suo ascolto che pone la possibilità di riconoscere l’altro. […]La parola è stata vista come prodotto della mente e non del corpo. Individuare questi due processi come entità di uno più ampio li situa in una nuova ottica che sollecita l’analisi delle relazioni che sono sempre intercorse tra loro. Il corpo ha continuato a comunicare informazioni consce e inconsce al di là e insieme alla parola, nonostante non fosse riconosciuto ufficialmente"(3).
Ad integrazione di quanto afferma Mariella Combi, è uno studio classico su analfabetismo e potere, recentemente ripubblicato da Meltemi, "Nè leggere nè scrivere" di Harrison e Callari Galli. I due autori affermano: "La parola-suono, per l’istruito, è destinata, prima o dopo – ma sempre e inevitabilmente -, a diventare scritta, èdestinata all’occhio e quando l’istruito pensa, pensa ad immagini: le parole pensate sono pensate già graficamente, pronte per essere scritte. Quando l’analfabeta pensa, pensa a dei suoni, e la sua parola è destinata all’orecchio. L’istruito ha il dizionario, l’analfabeta ha la memoria. Nella scrittura, ogni parola coinvolge la successione, si lega ad essa e deve esserle coerente. La parola-suono può vivere da sola: le basta l’intonazione per essere chiara; ed è col gesto che deve essere coerente: col gesto e col viso e con la situazione. La parola-suono coinvolge non le altre parole, ma, con l’udito, gli altri sensi; e con la totalità dell’essere, la totalità del gruppo sociale"(4).
Artaud arriva in manicomio a prefigurare la necessità di una lingua per tutti, anzi, da un certo momento in poi, afferma di scrivere per gli analfabeti: è il momento in cui seguirà in volo i suoni delle parole e li cercherà di catturare sulla carta o nella registrazione fonica.
La lingua di Artaud ancora oggi, anche in ambienti accademici, viene rifiutata perché definita la lingua dei folli e dei bambini: se Artaud fosse ancora vivo sarebbe sicuramente felice di questa denigrazione, perché proprio alla lingua dei folli e dei bambini egli voleva arrivare.
Parallelamente, si pone la questione di una lettura "classica" che viene data alla ricerca e alla sperimentazione di nuove forme di linguaggio, di scrittura e di allestimento scenico: spesso dotte professoresse di liceo classico lamentano la blasfemità di talune messe in scena dei "teatri delle diversità ". Esse invocano quasi la censura per il sacrilegio che si compie nei confronti di classici del teatro e della letteratura, con attori che non hanno mai imparato le "regole" basilari della recitazione e della gestualità .
Foucalt dedica un capitolo ad Artaud nella sua "Storia della follia nell’età classica", considerando l’autore francese come la sintesi del processo di de-istituzionalizzazione della malattia mentale e come il precursore di una nuova cultura. Egli scrive: "La letteratura […] si sta lentamente trasformando in un linguaggio la cui parola enuncia, nello stesso tempo in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola. Prima […] scrivere consisteva nello stabilire la propria parola all’interno di una data lingua"(5).
Foucalt aggiunge che la follia era il linguaggio escluso, quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato, da cui la repressione della follia come parola interdetta. Ancora Foucalt continua dicendo: "Da qui la strana vicinanza tra follia e letteratura, alla quale non bisogna assegnare il senso di un’affinità psicologica finalmente messa a nudo. Scoperta come un linguaggio che tace nella sovrapposizione a se stesso, la follia non manifesta nè narra la nascita di un’opera (o di qualcosa che, con un po’ di genio o un po’ di fortuna, avrebbe potuto diventare un’opera); essa designa la forma vuota da cui proviene quest’opera, ossia il luogo da cui non cessa di essere assente, dove non la si troverà mai perché non vi si è mai trovata. Qui in questa regione pallida, sotto questo nascondiglio essenziale, si svela l’incompatibilità gemellare dell’opera e della follia; è il punto cieco della propria possibilità e della loro mutua esclusione"(6).
È interessante ed esaustiva la sintesi che della figura di Artaud dà lo stesso Foucalt, situandolo nella zona di liminalità , di passaggio tra l’epoca della Verità e l’epoca dell’incertezza e del dubbio, in cui occorre recuperare i frammenti delle individualità di ciascuno per provare a ri-scrivere la Storia.
Scrive Foucalt: "Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. La sua figura si sarà racchiusa su se stessa non permettendo più di decifrare le tracce che avrà lasciato. Queste stesse tracce non appariranno, a uno sguardo ignorante, se non come semplici macchie nere? Tutt’al più faranno parte di configurazioni che a noi ora sarebbe impossibile disegnare, ma che saranno nel futuro le indispensabili griglie attraverso le quali render leggibili noi, e la nostra cultura, a noi stessi. Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società . Tutto quello che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità , o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. E quel che per noi designa attualmente questo Esterno rischia veramente un giorno di designarci, noi proprio noi"(7).
Interessante è, infine, l’analisi di Marco Dotti, che afferma: "Il corpo di Antonin Artaud si costituisce come spazio politico della sovversione, in funzione della sua radicale esigenza di trascendere i propri limiti, di fuggirne l’auto-referenzialità , semplicemente vivendoli, trasfigurandoli nella reiterazione ossessiva degli spasimi. Il corpo si trasforma da spazio interiore di relazione con le cose, in esteriorità immediata, in percezione, in un sovraccarico di rumore e di senso che indice il riacutizzarsi di ferite e piaghe sociali, in una sorta di contro-rito negativo, apotropaico, che contrasti, in virtù della propria pulsione elettrica inaudita, gli apparati simbolici del potere e le sue occulte, vili ramificazioni. è certamente un paradosso, quello che ci mostra Artaud, conducendoci dalla rottura alla riscrittura del corpo e del linguaggio"(8).
Il breve percorso proposto ci consegna la metodologia "escavatrice" nella Carne (e non semplicemente nello spirito o nell’anima) di Artaud, con il tentativo caparbio di "ascoltare" l’, senza imporsi prima dell’incontro l’idea definitiva dell’altro. Artaud insegna a rispettare i tempi e i modi di ciascuna persona. Artaud propone di recuperare la sacralità del rito teatrale, facendo della "festa" l’occasione periodica (quasi quotidiana) dell’incontro tra le persone, nella scoperta reciproca dell’inimitabile diversità di ciascuno.
NOTE AL TESTO
(1) Mariella Combi, Il grido e la carezza. Percorsi nell’immaginario del corpo e della parola, Palermo, Sellerio, 1988.
(2) Ivi.
(3) Ibidem.
(4) Gualtiero Harrison – Matilde Callari Galli, Nè leggere nè scrivere, Roma, Meltemi, 1997.
(5) Michel Foucalt, La follia, l’assenza di opera, in: Id., Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1992.
(6) Ivi.
(7) Ibidem.
(8) Marco Dotti, Artaud. Il corpo senza legge, in: A. Artaud, Lettere ai prepotenti, a cura di M. Dotti, Viterbo, Millelire Stampa Alternativa, 1999.