Giocare a calcio nei territori occupati

Nell’estate del 2003, mentre le cronache continuavano a scandire giornate di sangue e terrore con attacchi incrociati di razzi su Israele e missili "chirurgici" dell’esercito della stella di David, un piccolo club arabo di Nazareth vinceva la sua battaglia per la qualificazione nella prima divisione del campionato israeliano. Il calcio segue da queste parti un suo particolare corso: è il campo più avanzato di taluni stupefacenti esperimenti di convivenza pacifica, interetnica e interconfessionale, rivendicati come tali dai loro stessi artefici. è forse questo che dava una marcia in più all’Akei nazzareno, il cui successo si specchiava in quello del Bnei Sakhnin, squadra arabo-israeliana della Galilea protagonista della straordinaria impresa sportiva di percorrere in un decennio il cammino dalla quinta categoria alla serie maggiore. Con tale carica inerziale da sospingerla fino a conquistare lo scorso maggio la Coppa d’Israele – fatto inedito per un team arabo – e il clamoroso ingresso nel salotto Uefa delle migliori. Con un mister israelita, Eyal Lahman, in panchina.

Un anno e mezzo fa il mister alla guida dell’Akei Nazareth era l’arabo di passaporto israeliano Azmi Nassar. E questa sembra la pietra filosofale scoperta dai due team: la capacità  (rivendicata) di aggregare e amalgamare senza diffidenze arabi ed ebrei, nativi d’Israele e non, europei, brasiliani e africani chiamati di rinforzo a sostenerne gli impegni del calcio di vertice. Sicchè quando alla Federcalcio palestinese è sorto il dilemma di come sostituire l’austriaco Alfred Riedl sotto il cui comando è stata mancata la qualificazione alla fase finale della Coppa del Mondo 2006 (la Palestina è finita terza nel suo gruppo asiatico di 4 contendenti), la scelta ècaduta su Nassar, designato a Capodanno. Scelta non facile: benché Nassar abbia nel suo curriculum la creazione dal nulla della selezione palestinese negli anni `90, ciò avveniva quando i rapporti tra l’Anp e Israele erano più distesi. Tanto che il suo insediamento è rimasto inizialmente impastoiato nella macchina diplomatica: "Di norma – precisava a caldo sulla nomina un portavoce dell’esercito israeliano – vietiamo l’accesso a Gaza ai cittadini israeliani salvo ai volontari in missione umanitaria e ai giornalisti". In virtù del suo incarico, Nassar ha ottenuto un permesso speciale. Il presidente della federazione palestinese Ahmed al-Afifi ha sottolineato, fra le doti del neo-ct, proprio la facoltà  di muoversi rapidamente e senza intoppi, in forza alla sua nazionalità , dai territori occupati a Gaza attraverso Israele. Cosa impossibile ai palestinesi, giocatori compresi.

Nassar è innanzi tutto uomo di sport, sebbene la tensione sulla striscia non faciliti il miglior viatico alla sua avventura. "La gente di Nazareth – ricorda – mi aveva accettato: sono uno di loro e sanno da che parte batte il mio cuore. In Palestina conoscono le mie radici". La selezione potrà  contare su giocatori di Gaza, del West Bank, e fuoriusciti, due dei quali giocano nella prima divisione cilena. Nassar ha inventato a suo tempo la nazionale palestinese, che fallì la qualificazione alla fase finale del mondiale coreano-giapponese. Mai ha fatto mistero di vedere il mondo del pallone col prisma iridescente del dei suoi attori: "Qui abbiamo fatto proprio un bel cocktail – commentava dell’Akei – con arabi, ebrei, israeliani, ungheresi, brasiliani. Larry Kingston è ghanese. Bianchi e neri". In una società  in cui sono le stesse comunità  a leggersi secondo le rispettive differenze etnico-religiose. Identità  e . Perlopiù insormontabili. Che solo il calcio pare qui aver esondato. Qui dove i segni significano di più, e sono sovraccarichi di valenze. In questo caso, così anticonservatrici che padre Emile Ruhana, pastore cristiano delle due confessioni ortodosse di Sakhnin, riconosce nella vincente squadra del Bnei il fattore fondativo di un’identità  cittadina altrimenti mai condivisa: dove i matrimoni misti sono un tabù; dove l’esigua minoranza cristiana è separata in due comunità  tra loro invise che non riescono nemmeno a riconoscersi in un comune calendario di festività  religiose: 600 greco-ortodossi e altrettanti greco-cattolici uniati attaccati alla tradizione in modo assertivo di una diversità  incomunicante in una cittadina di 25.000 residenti, in maggioranza musulmani, fra cui vivono ebrei marocchini, arabi cristiani, drusi. "Il calcio è oggi il cuore e l’anima della città  – confessava padre Ruhana al giornale israeliano Haaretz il 2 gennaio, alla vigilia del Natale ortodosso in via di celebrazione la settimana successiva – e la gente è unita solo sotto i colori del Bnei, tanto i musulmani come i cristiani; d’altro canto, tutti gli arabi d’Israele fanno il tifo per Sakhnin". Squadra-parabola di quanti si sentono reietti eppure alla ricerca di nuova dignità . La forza dei simboli; che hanno però anche il loro negativo. Ecco allora che nei giorni del voto palestinese, il Sakhnin va a vincere meritatamente l’8 gennaio in casa del Betar e il dopo-partita è segnato a Gerusalemme da una gazzarra antiaraba messa in atto da oltranzisti ebrei con un bilancio di 15 arresti e vari contusi. In mattinata i tifosi arabi si erano recati alla Spianata delle moschee per pregare alla vittoria della loro squadra. Tante sono le tensioni che il match perso sabato dal Bnei con l’Hapoel Tel Aviv ha innescato una controversia: l’arbitro Assaf Keinan ha accusato un dirigente del Sakhnin, Shaher Halaila, di averlo preso a pugni. Mostrando un video che scagionerebbe Halaila, un dirigente del club ha parlato di "cospirazione".

Il calcio rappresentato è del resto ovunque dopato da questa forza evocativa al punto che il compassato , l’11 gennaio, chiede a Nassar se la sua nomina sia coerente con le prospettive di una riapertura del dialogo israelo-palestinese all’indomani dell’elezione di Abu Mazen. "Non mi occupo di politica", rispondeva il ct. E se c’è un calcio fatto di sogni, riscatto, successi e frustrazioni personali; giocato da concrete persone che li immedesimano nell’ambizione di vincere assieme una partita mettendovi dentro orgoglio e ; fatto del piacere di giocare a pallone, che appartiene a tanti, e di ammirare le prodezze di quelli più bravi che non a caso sono diventati professionisti; c’è però anche un calcio-rappresentazione che registi, attori e spettatori inoculano delle loro diverse proiezioni. Quando questo calcio monta in scena, le rinvia in modo puntualmente contraddittorio perché incapace di elaborarle. Accade a Roma come a Amsterdam, dove il presidente dell’Ajax, Jaakke, ha proposto formalmente una decina di giorni fa di rinunciare al retaggio ebraico del club per evitare di esacerbare gli animi sia di quanti vi si riconoscono con ostentazione identitaria che di quanti vi catalizzano contro l’odio antisemita. In Olanda è aperto un dibattito vivace.

Ogni tanto bisognerebbe però rileggere i maestri: "Tra gli spettacoli, oggi, abbiamo una sola forma di rappresentazione da cui è esclusa la passione individuale: lo sport. Il pubblico di una partita di calcio – scriveva Roland Barthes su nel lontano 1953 – è capace di far propri i gesti esteriori dello scontro cui assiste, l’esultanza, lo scontento, l’attesa, al cospetto di una narrazione vicina a una grande problematica morale: la dimostrazione empirica dell’eccellenza. Purtroppo, questa venerazione lascia intravedere la distanza che separa lo sport dalle grandi tragedie antiche, suscitando unicamente una morale della forza; mentre il teatro di Eschilo () o di Sofocle () provocava nel suo pubblico una vera emozione politica, esortandolo a piangere l’uomo invischiato nella tirannia di una religione barbara o di una legge civica disumana". Qualsiasi simbolo gli si appiccichi addosso, c’è qualcosa che il calcio, la sua rappresentazione, non riesce proprio a fare: surrogare la politica.

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