MARINA ABRAMOVIC A ROMA!!!!!!!

Biography Remix Vergogna, dolore, piacere. Tornano le performance dell’artista serba che usa il suo corpo come un coltello affilato

Lei se ne sta sospesa immersa in un giallo estivo, semisvestita. Come una dea Minerva che scende dal cielo invece di armi tiene stretti tra le sue mani due pitoni. Immobile, in un esercizio di concentrazione zen, accoglie gli spettatori in via di sistemazione sulle poltrone in quella posizione scomoda, che subito crea disagio in chi è costretto allo sguardo. A seguire, due cani dobermann entrano in scena e cominciano a mangiare tra ossa già spolpate. I latrati avvolgono la sala. Marina Abramovic è un’artista che non ama le mezze misure e considera la vita – la sua – uno schermo dove confluiscono più eventi, quelli privati e quelli collettivi. Così la guerra in ex Jugoslavia può diventare una «pulizia» ossessiva di montagne di ossa e brandelli di carni da macelleria, oppure un dolore intimo come una separazione dal proprio compagno Ulay, una «folle» camminata, sfibrante, per più di mille chilometri fino all’incontro finale sulla Muraglia cinese, con conseguente silenzio imbarazzato, pianto liberatorio e addio. Lo spettacolo in scena al Palladium per il RomaEuropa festival, – un collage di performance di Abramovic con un doppio piano narrativo (a volte anche triplo) dove dal vivo e in video le azioni di un tempo, coinvolgendo i suoi studenti – è il frutto della collaborazione della body-artista con Michael Laub. Racconta per «quadri» che forniscono dei capitoli, la storia di un percorso estremo, di un corpo maltrattato sensorialmente e psicologicamente, dilatando la temporalità. L’hinc et nunc della performance viene in un certo senso tradito ma non troppo: «- dice Abramovic – inizia nel 1946, quando nacqui e continua fino a oggi. Aggiungo i fatti della mia vita man mano che avvengono, oppure realizzo versioni completamente nuove. è un’opera in divenire che talvolta dirigo io stessa, altre invito diversi registi a farlo». Tra i display che annunciano date e momenti importanti di un’esistenza, qualcosa viene rivissuto in diretta: per esempio il terribile «ritmo» del coltello tra le dita che Marina infligge al pubblico, o lo schiaffeggiamento che una volta riguardò lei e Ulay e oggi gli allievi, come purificazione degli istinti aggressivi di una comunità e non più di una coppia. Gli elementi unici della pièce che si avvale di una scenografia essenziale, costruita su pochissimi oggetti, sono sentimenti impalpabili. Come vergogna, dolore, piacere, spesso disgusto e insostenibilità dell’immagine: la stella di David incisa con la lametta sulla pancia, la cipolla cruda divorata in modo compulsivo per «piangere», le spazzolate che graffiano fino allo sfinimento, i serpenti che scivolano e si attorcigliano sulla pelle del seno nudo. Nella performance originale strisciavano sul volto e sulla bocca dell’artista. Che spiega così la fascinazione e insieme la repulsione per i pitoni: «Mia madre mi disse che quando era incinta di me sognò di partorire un enorme serpente. Mentre mi partoriva io uscii ma metà della placenta rimase dentro di lei. Nessuno dei dottori se ne accorse. Dopo poco tempo le venne un’infezione e quasi ne morì».

Se in teatro è necessario trasformare una performance nella sua rappresentazione, allora il salto col presente e il collegamento (emotivo) col passato può essere ancora un corpo. Quello del figlio di Ulay, per esempio, con cui Abramovic si trova a reinterpretare se stessa, l’impossibilità del contatto e del raggiungimento dell’altro (l’azione con l’elastico), il bilico sottile che separa la vita dalla morte (il tiro con l’arco, bersaglio il cuore). A testimonianza che il passato non sempre «passa».

——————————————————————————————————-

«Mettere in scena la mia esistenza e la mia disperazione, permettendo al pubblico di guardare quella rappresentazione come fosse la propria storia». Un incontro con Marina Abramovic

Marina Abramovic, nata a Belgrado nel 1946, lavora sin dal 1969 utilizzando il proprio corpo in attività performative che portano al limite le emozioni e suscitano forti reazioni degli spettatori. Le sue performance, per dodici anni realizzate insieme al compagno Ulay, sono state ospitate dai maggiori musei europei e asiatici. L’abbiamo incontrata durante le prove dell’ultimo spettacolo romano.

L’idea di mettere in scena questa biografia in realtà non è affatto recente, risale al 1989, quando mi trovavo in circostanze molto drammatiche. Avevo appena finito la mia : mentre Ulay era partito dal Deserto del Gobi, io avevo cominciato dal Mar Giallo. Abbiamo camminato mille chilometri ciascuno per dirci addio, per concludere la nostra storia da un punto emotivo ma anche pratico, per mettere fine alla nostra vita insieme. è stato un momento davvero molto doloroso: avevo quaranta anni, mi sentivo grassa, brutta e indesiderata. Pensavo che la mia vita fosse finita in quel momento. D’altronde lavoravo con il mio compagno da dodici anni e tutte le idee ci venivano insieme, le concretizzavamo insieme. Dunque non era solo la fine della mia vita emotiva, ma anche della mia carriera. Si trattava di un vero e proprio record perché generalmente quando perdi un amore, per quanto importante, hai sempre un lavoro al quale aggrapparti. In questo caso era così profondo il sentimento di disperazione che non potevo fare nulla e la sola buona idea che mi è venuta dopo un po’ di tempo, è stata quella di mettere in scena la mia vita e la mia disperazione.

Inizialmente, infatti, odiavo l’idea stessa del teatro: perché per un’artista di performance è un demone. Quando fai performance reciti una volta sola, sei originale, diretto, metti in scena unicamente le tue emozioni. Nel teatro avviene il contrario, le persone sono sedute sulle poltrone e ti guardano interpretare qualcun altro. Le emozioni a teatro sono false e in quel momento avevo bisogno di qualcosa che fosse il più possibile falsa, più del teatro avrei voluto realizzare un’opera per rappresentare la mia vita. Ho iniziato nell’89 con l’intenzione di fare uno spettacolo ogni tre o quattro anni e aggiungere gli eventi come succedevano nella vita reale. Ogni rappresentazione doveva avere un regista diverso.

Fu la più drammatica perché dovevo soprattutto rappresentare il mio addio a Ulay e lui era lì, presente tra il pubblico, con la sua nuova moglie. Fu un miscuglio stranissimo di vita reale, emozioni reali e teatro. All’inizio mettevo in scena delle performance, mentre successivamente ho capito che sarebbe stato più efficace dare in pasto al pubblico gli aspetti della mia personalità che generalmente tenevo nascosti. Come , infatti, si vuole apparire forti e senza paure, mentre nella vita reale sono completamente diversa: sono fragile, ho molte debolezze, mi piacciono i film kitsch e i brutti libri, mangio tantissima cioccolata… Ci sono moltissime contraddizioni in ognuno di noi, che vengono nascoste quando ci si presenta in pubblico. In teatro voglio invece mostrare tutti gli aspetti della mia personalità, soprattutto quelli di cui provo vergogna.

In effetti sono una pessima attrice, perché c’è davvero una grande differenza tra fare performance e la capacità di interpretare: recitavo male, ballavo male, un autentico disastro. A un certo punto, però, ho lavorato con il regista americano Richard Atlas, e lui ha realizzato la prima scena di questa biografia che non è mai più cambiata. Per me questa scena è come il leone della , una specie di immagine mitologica. Adesso però il lavoro è fatto interamente da Michael Laub, che è un mio amico da tanti anni: gli ho dato tutto il materiale perché facesse un remix, perché diventasse una specie di deejay della mia vita.

L’idea di qualcuno che potesse interpretare me stessa mi è sembrata sempre molto interessante perché generalmente si ha un’idea troppo assoluta dell’unicità dell’opera, della sua irripetibilità. Dopo trent’anni di lavoro credo invece che, come un musicista suona la musica di Bach o Beethoven e della sua esecuzione può fare una versione riascoltabile all’infinito, allo stesso modo se sei un artista di performance puoi anche interpretare qualcun altro. Nessuno lo ha mai voluto fare, ma voglio essere la prima a farmi da parte e a lasciare spazio agli altri. Laub, poi, ha avuto l’idea geniale di sostituire Ulay con suo figlio che oggi ha 32 anni, la stessa età che suo padre aveva quando ci siamo lasciati. A quel punto ho trovato una studentessa che invece somiglia alla Marina di allora: un mix interessante di vita reale e opera d’arte. Questa biografia è un work in progress, vuole permettere al pubblico di guardarla come se fosse la propria storia: se si affronta qualcosa di personale lo si deve fare a patto di riuscire a trasformarlo in qualcosa di universale, altrimenti non interessa a nessuno.

Sì, mi sento un artista nomade: sono nata a Belgrado ma non sento di appartenere a nessuna nazione, ho perso completamente questo tipo di sentimento. Solo così mi vengono le idee da realizzare, anche se la spinta fondamentale del mio lavoro è quella di congiungere la conoscenza orientale del corpo e della mente con la non-conoscenza occidentale. Viaggiare sin dall’inizio per me è stato essenziale, certamente non sono l’unica, anzi oggi c’è un gran numero di artisti che lavora viaggiando, che trae ispirazione dai viaggi. Però in questo mi sento una pioniera: nell’83, per esempio, con Ulay realizzammo il primo lavoro «multiculturale», ora così di moda, facendo incontrare un medico aborigeno dell’Australia centrale e un lama tibetano. Già allora tentavamo di trovare un punto di incontro tra Oriente e Occidente.

, Venerdì 1 Ottobre 2004

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *