Luciano Liboni è stato ucciso, alla fine. Anzi, ci suggerisce il tamburo battente e prolungato dei mass media intonanti il peana della vittoria, «finalmente». Il Lupo, come lo chiamano: creatura dell’espulsione e della solitudine, che si nasconde nella selva; così lo chiamano, soprannome che fa da involontario, ironico contrappunto allo stesso nome – Luciano – che evoca invece l’irraggiamento d’una luce; una speranza d’uscire dalla selva che a lui, suggeriscono, non avrebbe dovuto essere concessa, né perdonata.
Espulsione e solitudine; e la morte: fine inevitabile perché meritata, ci suggeriscono.
Agghiacciante: questa mancanza di che esibisce trionfante il corpo e il sangue d’un uomo come quelli d’una bestia finalmente abbattuta dopo l’ultimo assalto ruggente maledetto disperato.
Intendiamoci, tuttavia: in queste righe non si tratta affatto della liceità dell’azione della forza pubblica che ha sparato. L’ordinamento autorizza l’uso delle armi per gli appartenenti alla forza pubblica (art. 53 del codice penale), anche quando i colpi sono direttamente diretti ad uccidere. Ma va ricordato questo ai cittadini, come nozione che forse dovrebbe essere insegnata in quella che una volta, ora non so, si chiamava educazione civica: quella norma serve a rendere lecito un fatto che è altrimenti, nella nudità oggettiva della sua verità, illecito. Sempre illecito è «cagionare la morte di un uomo»; può essere giustificato, ma appunto: illecito giustificato. E qui, giustificato entro rigorosissimi limiti: condizioni estreme e necessaria proporzione tra valori costituzionalmente tutelati, l’uno salvato, l’altro annullato dall’uso dell’arma.
Ma, dicevo, non è questo il punto. Anzi, proprio ammettere che quell’uccisione è lecita rende agghiaccianti le note di fondo del canto di vittoria: reso ancor più grave; assordante dal vuoto estivo delle notizie. Perché la morte del delinquente è una sconfitta per la società, che non è riuscita a recuperarlo a sé, foss’anche neutralizzato in un carcere, ad espiare una pena che comunque deve «tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27 di una Costituzione troppo dimenticata). La società si è data il diritto penale (ma è così dal Medioevo, molti lo sanno, troppi no) non per affermare bensì per limitare l’immane potenza dell’ordinamento statale sul singolo, limitarla a ciò che è "giusta reazione": reazione che, solo se giusta, educa ai valori. E allora, si deve ricordare ai cittadini, in controcanto ai peana di vittoria, che un ordinamento chinato con quelle intenzioni sul delinquente si china pietoso per ciò stesso anche sulle vittime, mostrando di far di tutto, nel ricondurre a se stesso il «deviante», per evitare che ce ne sia una in più. Non comunicare questo, da parte dei media, è un atto d’ineducazione civile, di volgarità intellettuale, che trasmette un’idea d’ineluttabilità del male che non sta nella Costituzione, è estranea alla cultura giuridica del Paese, alla cultura tout court, e soprattutto a quella cultura per la quale colui che perde una pecora lascia le altre novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, non certo per accopparla ma perché ben sa che «ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc, 15, 1-10). Bravo, in questo, il carabiniere che ha detto di averlo chiamato per nome, di aver chiamato la sua nuda anima sotto quel nome, ormai pesante, seppur prima di abbatterlo: questo, e questo solo, non altre immagini, non altre parole, poteva essere trasmesso.
Liboni è stat o ucciso. Quando muore un giusto, tutti versano lacrime giuste, ma quando muore un delinquente, sono i giusti che le versano, amare, perché sanno di avere fallito. Noi le versiamo perché sembra che si sia persa anche questa coscienza.