Mohammed è uno dei tanti "sanati" della legge Bossi-Fini. Ha ottenuto un permesso di soggiorno di sei mesi, perché il suo datore di lavoro non lo voleva regolarizzare, e lui lo ha denunciato. Adesso, lavora a Milano con un’agenzia interinale, la Adecco, e il suo permesso di soggiorno è in scadenza. Qualche giorno fa è andato in questura dove gli hanno spiegato la novità : per i "regolarizzati" vige un doppio regime. Chi ha ottenuto un permesso di soggiorno tramite il decreto legge 195, che aprì le porte alla sanatoria, quando va a chiedere il rinnovo deve avere in tasca un contratto a tempo determinato di almeno un anno. Così prescrive il decreto legge. Un bel problema: chi, in Italia, oggi riesce a ottenere contratti di lavoro di un anno? Molto, molto pochi. E allora perché dovrebbe valere questa regola per gli immigrati? La situazione di Milano si riscontra ovunque. Tutte le questure si trovano di fronte a questo dilemma, e stanno subissando di quesiti il ministero dell’interno. Per ora, nella maggior parte delle città , si sceglie di "congelare" le richieste di rinnovo, in attesa di chiarimenti. Significherebbe, infatti, dover rigettare la maggior parte delle domande di rinnovo dei "regolarizzati". E la sanatoria si trasformerebbe in un clamoroso flop (cinzia gubbini)
Vita dura per i lavoratori immigrati che hanno a che fare con le questure ingolfate dal lavoro per i permessi di soggiorno – un po’ tutte. La storia di un lavoratore tunisino di Campi Bisenzio (Firenze) impiegato con contratto a tempo indeterminato dal `95 in un’azienda chimica, è esemplare. Ibrahim (nome di fantasia) voleva rinnovare il suo permesso di soggiorno come comanda la legge Bossi-Fini: sessanta giorni prima della scadenza. Siamo nell’ottobre 2003. La questura gli dice: torna più tardi, troppo lavoro. Cosicchè passa la scadenza stabilita per legge, ma lui è tranquillo: glielo ha detto la questura. Dopo qualche giorno ottiene il famoso cedolino, testimonianza del rinnovo in corso. Però, passano i mesi: il lavoro, negli uffici, è tanto. L’azienda si spazientisce, d’altronde la legge prevede l’arresto per il datore di lavoro che impiega cittadini extracomunitari non in piena regola, e lo sospende. Lui protesta, appoggiato dalla Filcea Cgil: il problema è della questura, non suo. L’Unione industriali interpella quindi la Direzione provinciale del lavoro che risponde: il lavoratore va sospeso, così dice la legge. In attesa del rinnovo, a cui aveva diritto, Ibrahim non ha percepito lo stipendio nè ha maturato il dovuto tfr.
E adesso ci si mette pure la legge 30, la famosa legge Biagi, a rendere la vita impossibile ai lavoratori immigrati. In diverse città (tra cui Brescia e Milano) le questure rifiutano il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati che si sono sanati attraverso contratti di socio lavoratore nelle cooperative. Il motivo è semplice: la legge 30 (secondo alcune interpretazioni, tra cui quella del ministro Maroni espressa in una recente circolare) cambia lo "statuto" del socio lavoratore. Prima, era anche un dipendente. Ora diventa una figura ibrida, in cui prevale il rapporto associativo, equiparabile a un contratto di lavoro autonomo, rispetto a quello subordinato. Insomma, se prima i lavoratori immigrati soci lavoratori delle cooperative potevano considerarsi a tutti gli effetti dipendenti, potendo accedere così alla sanatoria che tagliava fuori i lavoratori autonomi, dopo l’approvazione della legge Biagi, il loro statuto è cambiato. Così, quando vanno a chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno, presentando lo stesso identico contratto di lavoro con cui hanno ottenuto la regolarizzazione, di punto in bianco si vedono rigettare la richiesta. Sempre secondo la logica per cui i "sanati" rispondono a regole diverse rispetto ai normali lavoratori immigrati.